domenica 10 dicembre 2017

Il continente Roma






Quando avevo tre anni, mi trasferii da Monteverde Vecchio al quartiere Trieste.
Mia nonna acquistò una farmacia e una casa a piazza Crati. Due delle tre figlie, fra cui mia madre, la seguirono. E io mi ritrovai a crescere da triestino.
Ho trascorso un'infanzia misantropica, un'adolescenza problematica e un post adolescenza saccente tra la borghesia perbenista del mio nuovo quartiere che, sotto a una facciata di una esibita civiltà consolidata, celava l'astio del risentimento sociale, la certezza granitica di un'identità nei fatti friabile, il terrore dell'irruzione violenta del diverso, il disprezzo nei confronti di ogni prospettiva palingenetica. Prospettiva palingenetica, peraltro, disdegnata perfino da me che, da bravo borghese, detestavo la mia classe sociale ma non coglievo dei differenti orizzonti esistenziali.
Finita l'università, giunse la decisione di allontanarmi da me stesso e di spostarmi a Prati, di fuggire, in altri termini, dalla soffocante identificazione con un esterno interiorizzato verso la rassicurante diversità di un quartiere altrettanto borghese.
Per tre anni mi sentii un estraneo, un intruso in un ambiente troppo incompatibile, pur nelle sue analogie, per individuare una possibile integrazione futura. E tornai indietro. Tornai al disarmonico abbraccio della mia vera città detestata: il quartiere Trieste.

Chi non è romano, anche solo di una generazione, non può capirmi, non può accorgersi delle sfumature essenziali che, al di là dello scorrere del tempo, rendono tra loro inconciliabili le diverse parti di Roma (perfino quelle che parrebbero equivalenti), non può cogliere che Roma non è una città, ma è un continente, non può comprendere che i suoi quartieri non sono delle semplici zone topografiche di un unicum urbano, ma sono delle nazioni.
Credere che questo estremo ma omogeneo frazionamento-isolamento paradossale sia scomparso, che sia confinato magari nella piccola città papalina glorificata e oltraggiata da Belli, significa o giudicare Roma attraverso gli stereotipi da Corriere della sera, o essere dei forestieri che – come scrive Cirillo – abitano o abitavano a Roma ma non ci vivono o non ci vivevano, tanto più che si rivela un'illusione ritenere possibile vivere davvero a Roma per un non romano, per uno straniero che mai riuscirà a integrarsi nell'essenza polimorfa di un continente che simula di essere una città, che dissimula la propria interiorità ostentando delle esibizionistiche viscere ributtanti, delle profonde crepe su un muro fatiscente.
Lo straniero, per forza di cose, si ferma alla scorza e generalizza mentre gli sfugge la complessità familiare di una molteplicità organica sebbene slabbrata. Il romano no, specifica, distingue a volte emettendo giudizi fasulli, a volte fingendo una disarmonia risentita che spesso si esplica in dichiarazioni d'intenti evasivi che lo stesso romano sa già che non si realizzeranno a meno che non intervenga qualche imprevisto sgradevole.

Sfogliando il bel libro antologico, curato da Silvana Cirillo, Roma punto a capo (Ponte Sisto, 2017), si scorge che il veneto Parise accostava i romani ai gatti che “stanno fermi e di solito ronfano o fanno finta di dormire,” che “ogni tanto aprono un occhio, un occhio assolutamente sveglio e si guardano intorno” per capire “se è il caso di muoversi o no, se non è il caso, richiudono l'occhio e riprendono a dormire o a fingere di dormire” (p.248). Si scopre che l'abruzzese Flaiano scriveva che Roma “non giudica , assolve, e allora chi lavora in questa città si sente un po' come un cane senza collare”. Si apprende che l'emiliano Malerba affermava che “ogni rapporto con Roma è fatalmente fondato sulla ambiguità: la si può odiare furiosamente e continuare ad amarla in segreto, di lei si può dire tutto il male e tutto il bene possibile” (p.119).
Belle frasi, argute, perfino affascinanti, ma che rivelano un completo fraintendimento, una totale mancanza della coscienza, vivissima invece nel milanese Manganelli (come nota finemente il romano Cortellessa) che nei risvolti di copertina dei suoi libri asseriva di “risiedere” a Roma, non di “viverci” (p.135).
I veri romani operano separazioni, avanzano semmai per giustapposizioni non per addizioni, possiedono la consapevolezza che la propria città sia appunto un continente che travalica l'unità, la scoprono come l'ha scoperta Moravia, “in maniera non turistica” ma “attraverso le frequentazioni della vita quotidiana” (p.153), ma a volte travisano, portando se stessi, e il proprio inestirpabile marchio territoriale, in un altrove stridente seppure appena appena.
Lo stesso Moravia, d'altro canto, trascinò la propria interiorità da via Sgambati a via dell'Oca e scorse attorno a sé un'intima proiezione della propria profonda dissonanza territoriale. Ma – da acuto osservatore di tutto ciò che era estraneo alla sua intima coscienza – non equivocò, non travisò, non accomunò le pur lievi inconciliabilità fattuali: I quartieri di Roma, perfino quelli limitrofi, presentano delle peculiarità che non sfuggono, per esempio, all'universo caleidoscopico dei Racconti romani.
E Morante, nata a Testaccio ma formatasi sulla via Nomentana, fece uno dei punti di forza del capolavoro La storia la descrizione puntuale delle singolarità irriducibili dei quartiere popolari della Roma dilaniata dalla guerra. Una descrizione antropologica, a volte addirittura etnologica, che soltanto una romana sarebbe stata in grado di attuare.
E Albinati, mio connazionale, che sa bene quale siano le peculiarità della nostra nazione comune, nella Scuola cattolica esclama: “Quartiere Trieste, tomba del coraggio, prigione dalle pareti trasparenti, culla e declino della civiltà! (…) Sono uscito di casa (…) alla ricerca di chissà quale novità, quando la tua essenza di quartiere è di non presentarne mai”.

Mio padre nacque a via Po. Tornato all'ovile, non se ne volle staccare più.
Mia madre, nata a Trastevere e formatasi a via di Panico, si sente tuttora un'esule.


venerdì 2 giugno 2017

I campi di maggio





Che cosa furono gli anni Settanta? Furono degli anni caratterizzati dall'idea che tutti avessero il diritto alla felicità oppure furono degli anni grigi, pieni di vittime e di cattivi maestri che pontificavano senza correre rischi?

Se la felicità si rispecchiava negli ideali tossici del raduno del parco Lambro, o nelle utopie terroristiche di alcuni fanatici che giustificavano i loro omicidi in virtù del bene comune – come se le vittime fossero dei meri mezzi inanimati per costruire un mondo migliore e non degli individui veri e propri con le loro speranze e le loro amarezze –, o se i maestri s'identificavano in Jean-Paul Sartre che accusava – in preda alla follia senile – le autorità italiane di uccisioni di ribelli innocenti e in Toni Negri che incitava alla rivoluzione proletaria per poi fuggire e discettare enfaticamente dalla Francia sulla situazione italiana, la risposta sembrerebbe scontata. Ma sarebbe anche troppo semplicistica. Tanto più che non terrebbe conto di ciò che fu rimosso completamente in quel decennio: il senso della vita e quello della morte.

Per non essere frainteso, Igor Patruno, in I campi di maggio (Ponte Sisto, 2015), già nella seconda pagina del suo magnifico romanzo mette in bocca a un personaggio, Riccardo, questa considerazione: «Osserva la disposizione degli oggetti in questa stanza. È il prodotto della mia visione del mondo. Quando non ci sarò più, perderà significato. La morte dissolve la posizione fisica e sentimentale che assegniamo alle cose e alle persone, perché quella posizione ha un senso solo per noi. Nessun altro potrebbe interiorizzarla allo stesso modo. Ci appartiene come individui, non è replicabile».

Già da questa breve citazione si possono rintracciare – o almeno immaginare senza poi essere smentiti – i punti cardini su cui ruota il malinconico pessimismo esistenziale di Patruno: la precarietà di ogni singola esistenza, la solitudine ontologica, l'incomunicabilità dei singoli dolori, l'assurdità dell'indifferenza verso le sorti degli estranei insita nel dna di ogni essere vivente, l'inammissibile astio e ostilità che corrode i rapporti tra gli uomini e che accresce il naturale male di vivere.

Patruno, con uno stile fluido ma al contempo elegante, crea un tunnel illuminato da luci scialbe che attraversa la narrazione e l'arricchisce di un senso profondamente diverso da quello più evidente.

Un tunnel oscuro che conduce all'amara presa di coscienza dei limiti della sensibilità umana («Viviamo inconsapevoli di quante persone conosciute, magari solo superficialmente, se ne sono andate mentre stavamo guardando la televisione, o fantasticando sulla sconosciuta seduta sulla metro. Dentro di noi continuano a vivere come esistenze sospese, come entità appese in una cella del cervello. Ma nella realtà non ci sono più», pag.242).

Un tunnel oscuro che, tuttavia, rende sempre più chiara la vanità delle occupazioni-preoccupazioni individuali, la crudeltà illogica di ogni violenta lotta politica, dal momento che la morte incombe su tutti fin dal primo vagito («Mi piaceva guardare i treni passare. (…) Di notte era uno spettacolo! (…) Intravedevo fisionomie sbiadite di passeggeri addormentati, oppure intenti a chiacchierare, a leggere, a rovistare nelle borse. (…) Ci guardavamo senza vederci davvero, percependo nient'altro che ombre. Provavo nostalgia per la fragilità di quelle vite in movimento e per la mia, in bilico su una terrazza di fronte al mondo. Mi sembrava di cogliere l'assurdità della vita. (…) Qualsiasi fosse la destinazione dei viaggiatori, qualsiasi fosse il mio destino, la vita si mostrava come un flusso sconclusionato, governato dal caso. Un treno in corsa dal quale non si poteva scendere», pag.224).

Un tunnel oscuro che porta il protagonista del romanzo, Antonio Delle Piane, alla conclusione che la ricerca della verità sull'omicidio della ventunenne Silvana – omicidio avvenuto quarant'anni prima – sia non solo una ricerca impossibile ma anche inutile. Che lo porta, in altri termini, alla coscienza che ciò che tragicamente risulta fondamentale sia ormai soltanto il dolore dei familiari e di chi ha voluto bene alla ragazza.

Ed è questa, alla fine, l'unica atroce constatazione che conta, che lacera ancora di più di ogni personale rielaborazione di un lutto: il permanere della sofferenza privata.

Patruno è un grande scrittore. Con un'estrema dovizia di particolari crea un romanzo fondato su una quête irraggiungibile. Sa calibrare i tempi, sondare nei più remoti angoli della psiche dei personaggi tanto da renderli reali, dei round characters, come li avrebbe definiti Forster. La ricostruzione storica è perfetta. L'autore non lascia nessuno spazio al pittoresco né tanto meno alla più stolida nostalgia. E tale distacco si rivela un ulteriore pregio per un romanzo suggestivo.


domenica 14 maggio 2017

Il pittore di ex voto





L'impalpabilità fugace delle nuvole non è interpretabile con una sequenza armonica di espressioni numeriche. Si possono cogliere solo soggettivamente degli elementi ritenuti essenziali nella coscienza dei limiti del proprio transitorio punto di vista. Nulla, del resto, procede seguendo un perfetto percorso deterministico. Nemmeno il pensiero individuale o l'aspetto fisico. Si rivela un'illusione leggere qualsiasi faccia della realtà da un'ottica scientifica. Meglio constatare come perfino nella matematica domini l'irrazionalità (si pensi al mistero dei numeri primi) e non sforzarsi di razionalizzare tutto.

Pro bono malum. Questo è il motto che Ariosto volle fosse impresso alla fine dell'Orlando Furioso probabilmente per sottolineare la relatività di ogni valutazione, i limiti di ogni visione assoluta, l'assurdità di ogni convinzione granitica o trascendente.

Un motto che si addice bene anche al Pittore di ex voto (Tullio Pironti, 2017), splendido romanzo breve di Paolo Codazzi.

Con ostinata lucidità, l'autore rifiuta qualsiasi immersione mistica, qualsiasi esaltazione della volontà imperscrutabile di un Dio che salva gli uni ma condanna gli altri (come se fosse una divinità capricciosa, il Dio crudel di Boito).

Nessun intervento trascendente si ricollega al bizzarro destino di Fulvio che gli riserva, sì, la salvezza da due terribili sinistri, ma che al contempo gli impone anche di non godere a lungo l'idillio sentimentale inseguito sin dai banchi di scuola e raggiunto al di là di ogni previsione.

Nessuna divinità adirata si scatena contro l'effimera tranquillità raggiunta da Thomas che, per colpa di una nascita irregolare, non può che essere un reietto nella società del Dopoguerra.

Nessun miracolo fa sì che la guarigione di Luca sia determinata da ciò che avrebbe dovuto ucciderlo, cioè da un morso di una vipera e dal ritardo dei soccorsi.

Il male, così come il bene”, scrive Codazzi, “non è perfetto, e nella sua evoluzione può arrestarsi facendo gridare al miracolo, all'intervento di forze sovrannaturali, in realtà una consistente percentuale di mali regredisce o si arresta (…) solo per un semplice caso”.
Sballottati dall'insensata imprevedibilità della vita, gli uomini aggravano la loro precarietà sofferente incolpandosi l'un l'altro, agendo coscientemente per danneggiare il prossimo, per farlo soffrire.

Tutto ciò è inaccettabile, ci dice tra le righe Codazzi. La tragica inconsistenza umana deve condurre alla tolleranza, alla disponibilità all'ascolto, all'accettazione delle credenze altrui, se tali credenze si rivelano innocue.

In altri termini, per tornare al romanzo, se una madre espone un ex voto nel santuario della Madonna di Montenero come ringraziamento verso la Vergine per aver salvato il proprio figlio da una morte certa, il figlio non ha alcun diritto di appropriarsi dell'ex voto perché ritenuto un inutile atto di superstizione, ma deve rispettare la sensibilità della madre, anche se defunta, mantenendo saldo un rapporto di rispetto verso le credenze altrui che dovrebbe andare al di là della morte.

Questa forse la sostanza di un libro affascinante, il cui continuo ondeggiare tra il passato e il presente, che talora si fondono in maniera impercettibile – nella convinzione che “il tempo cronologico non” sia “nella nostra mente, ma solo nell'orologio che portiamo al polso” -, è impreziosito da una prosa ipotattica ma fluida, da un lessico raffinato, da attese mai disattese, da un'ironia sottile che permea tutta la narrazione e che accompagna, discreta, la densità drammatica del materiale narrativo.


lunedì 6 febbraio 2017

Una possibile chiave di lettura di "Cani sciolti"






Gran bel libro Cani sciolti di Renzo Paris (Elliot Edizioni, 2016). Direi di più, a oltre quarant'anni dalla sua prima pubblicazione si rivela una vera e propria pietra miliare della letteratura post sessantottesca.

Io lo leggo però soprattutto come una storia d'amore bloccata dall'incomunicabilità che si trasforma in rabbia, in un desiderio di annullamento, in un deprezzamento di sé di fronte a un mondo estraneo che, tuttavia, si vorrebbe proprio, in una ricerca fallimentare di altri sbocchi sentimentali, in un sadomasochismo pesantemente esibito.

A confessa disperato l'amore che nutre per B. Ma B risponde in ritardo, con una lettera formale. A ama malamente Olga perché tale ragazza ha avuto un flirt con B. Ma Olga lo sa. Le sue proteste, la sua freddezza paiono dei pretesti per mascherare tutto l'amaro della consapevolezza. E A, davanti a questa situazione di stallo, proietta la propria angoscia in un'ostilità politica da proto terrorista verso la classe da cui proviene (quel retroterra piccolo borghese che gli ha impedito di osare) e in crudeltà verso gli animali più indifesi.

B recita la parte dell'innamorato con Serena (una sorta di doppio di Olga più sprovveduto e provinciale, ma non meno risoluto), ha rapporti sessuali improntati su un malcelato maschilismo con Stamira, s'impegna politicamente ma senza crederci fino in fondo, non riesce a diventare quel leader che forse nemmeno desidererebbe essere.

Entrambi non sono in grado di crearsi amicizie autentiche. Si scambiano lettere per parlare di se stessi. Non commentano quasi mai le lettere ricevute. Omettono i sentimenti provati appunto perché non riescono a uscire davvero dalle angustie piccolo borghesi.

A ama visceralmente B. Ma sarà ricambiato? B sa amare o è arido sentimentalmente?

Questa è la domanda senza risposta di un romanzo splendido che si sofferma sull'incapacità di comunicare, che scandaglia le contraddizioni in cui s'inviluppa l'intellettuale che confonde l'insoddisfazione privata con le rivendicazioni politiche, che coglie anche l'inconciliabilità tra una generazione impulsiva (i sessantottini) e quella, più riflessiva e disincantata, di chi ha vissuto momenti storici ben più rilevanti (penso a Noè, uno dei personaggi più riusciti del romanzo).

E il tutto è sorretto da una prosa paratattica, incalzante, priva di qualsiasi compiacimento letterario, che si rivela straordinariamente attuale.


domenica 29 gennaio 2017

Lo scrittore non ha fame






“Le variabili che regolano la vita, anche la più programmata, sono sempre in agguato: sono atomi che tentiamo di addomesticare, per tenerli sotto controllo. Noi, piccoli uomini ignari, atomi vaganti noi stessi, ci illudiamo di dominare il mondo, la natura, i destini nostri e altrui. Invece gli atomi che ci ruotano attorno vivono di vita propria, cozzano tra loro e con noi, una spinta casuale li sposta, veloci o lentissimi; quando incrociano la nostra vita il certo diventa impossibile, l'irrealizzabile diviene certo, quanto costruito con fatica svanisce come la nebbia del mattino al primo sole” (pag.47).

È in gran parte il caso a determinare il corso delle singole esistenze. Il successo o il fallimento non sono soltanto deterministicamente figli di un fantomatico merito, ma derivano soprattutto da varianti irrazionali, da mere combinazioni imprevedibili che distruggono qualsiasi certezza granitica per affondarla nel pantano dell'insicurezza. Come reagire se la propria vita è sconvolta da cambiamenti radicali, da atomi impazziti che demoliscono la fragile costruzione di un fittizio equilibrio interiore ed esteriore, da schegge inattese che fracassano il caldo nido degli affetti illusoriamente immutabili?

Non credo che Maria Letizia Putti, nel bel romanzo Lo scrittore non ha fame (Graphofeel, 2016), intenda proporre una risposta univoca a tale interrogativo angosciante. Anzi, con sottile ironia Putti evade dalle brutture della realtà, dalle meschinità che deturpano i rapporti tra gli uomini, dai malesseri familiari che creano spesso le più terribili sofferenze mentali, dalle basse invidie che si celano talvolta nei rapporti di amicizia, per soffermarsi su un mondo civilmente ideale e indicare una possibile via di fuga dal caos, dalla fragilità dell'essere, dal tempo che trascina via qualsiasi ombra di apparente appagamento. Una possibile via di fuga a sua volta utopica, transitoria – come si evince nella pagina finale del libro –, dato che gli atomi continuano in ogni caso a cozzare tra loro e a sconvolgere irrazionalmente i punti fermi delle gracili convinzioni individuali.

Andrea Visconti, il pacifico protagonista, solo dopo la traumatica esperienza del successo, della notorietà alienante che lo strappa dalla vita tranquilla di marito e di padre, capisce il valore delle piccole cose, degli affetti familiari, delle complicità con gli amici. In altri termini, è proprio il trionfo mediatico, che lo sradica dell'angulus oraziano, ad aiutarlo a cogliere il valore della cosiddetta normalità. Sconvolto, compie, anzi cerca di compiere un paradossale ritorno verso l'anonimato appagante ma ormai perso per sempre.

Su questo sottofondo epicureo si dipana un romanzo gradevole, ben scritto, dall'immediata decifrabilità, apparentemente ottimistico ma in realtà tormentato, cosciente dell'inconsistenza di ogni sentore di felicità statica. Meglio ridere che disperarsi, suggerisce Putti. E lo fa con una scanzonata sensibilità femminile e con un ritmo narrativo avvolgente e convincente.

mercoledì 25 gennaio 2017

Roma spacciata




Ho la fortuna di abitare in un quartiere residenziale in una via silenziosa perché priva di negozi, abbellita da palazzi d'inizio XX secolo e allietata, all'alba, dal canto degli uccellini che nidificano nella vicina Villa Ada. 
Tuttavia, all'inizio di questa splendida via, ogni giorno qualche macchina parcheggia sulle strisce pedonali e ostruisce un piccolo scivolo per disabili. Ed è difficile scorgere una contravvenzione o udire delle proteste da parte dei residenti. 
A volte, invece, capita che un'auto si metta nei parcheggi riservati ai motorini. Allora l'indignazione esplode: i tergicristalli vengono alzati se non addirittura divelti, la vernice sugli sportelli graffiata, la carrozzeria deturpata da piccole, astiose ammaccature.
Credo che la mia via sia un fedele specchio dell'inciviltà della Roma di questi anni Dieci. Una Roma in cui non s'intravede nessuna base culturale per ricostruire una nuova dimensione civile, in cui domina un egoismo gretto che esaspera gli pseudo diritti e se ne infischia dei propri doveri, in cui il “particulare” è stimato come unico valore esistenziale, in cui la collettività è considerata come un fastidioso intralcio da disprezzare.
Roma è spacciata.
Può cambiare sindaco ma non può cambiare più se stessa.
Se si riuscisse realisticamente a nutrire una speranza di palingenesi nelle nuove generazioni, se si riuscisse a notare in loro una minima determinazione di trarre fuori la Città Eterna dal fango del degrado civile in cui si è impantanata, di liberarla dal tanfo della spazzatura materiale e morale in cui marcisce, forse si potrebbe credere in un futuro migliore.
Ma quanti anni avranno i motociclisti che se ne sbattono delle auto parcheggiate sulle strisce e si adirano per quelle che usurpano il loro posteggio? Diciotto? Venti? Non saranno forse loro i romani adulti dei prossimi lustri? Si può forse attendere da tale teppaglia il ripristino di un barlume di civiltà?
Roma è spacciata.
Due sono le soluzioni per non essere contaminati dalla sua volgarità desolata e ormai inguaribile. La prima è quella di scappare senza rimpianti altrove. La seconda è quella di adeguarsi all'inciviltà e divenire, per sopravvivere, dei prepotenti aggressivi.

domenica 22 gennaio 2017

La parte plastica della letteratura




 

Questa è la parte plastica della letteratura: incarnare un personaggio, un pensiero o un'emozione in un atto o in un atteggiamento che colpisca profondamente l'occhio della mente” (R.L.Stevenson, A Gossip on Romance, 1882).
Ed è proprio la parte plastica della letteratura la base su cui poggia, per così dire, l'individuale persistenza interiore di un capolavoro.
Stevenson esemplifica affermando che “Crusoe che indietreggia davanti a un'orma” sia “il momento culminante della
leggenda”, tutto il resto può essere anche dimenticato, perfino l'eventuale commento ingegnoso di Defoe.
Come non concordare? Chi non ricorda le lacrime di Astianatte di fronte al padre armato, la rabbia di Laocoonte prima di essere stritolato con i figli dai due serpenti marini, l'imbarazzo di Paolo e Francesca mentre leggono il bacio tra Lancillotto e Ginevra, lo smarrimento di Orlando quando riconosce la grafia di Angelica, la determinazione delirante di Don Chisciotte prima di scagliarsi contro ai mulini a vento, l'inquietudine di Faust che si vede seguito fino al suo studio da un cane nero, la disperazione di don Rodrigo quando scorge il bubbone sotto l'ascella, il ripugnante risveglio di Samsa, il riso di padre Flynn nel confessionale.
Ecco uno dei motivi per i quali la narrativa italiana di questo secolo non ha lettori all'estero. Un cospicuo numero di critici snob e potenti, persi dietro al dannunzianesimo di fondo di molti autori nostrani, esaltano la verbosità velleitaria di scrittori inconsistenti e sminuiscono la concretezza plastica di chi crede nella forza della narrazione. I mass media danno spazio quasi esclusivamente agli scrittori-personaggi televisivi o a improvvisati scribacchini che trascrivono i fatti di cronaca colorandoli con le invenzioni più scontate. Sicché ciò che emerge dall'odierno panorama letterario italiano si rivela o un presuntuoso nulla che sprofonda nel più tedioso estetismo sterile o un volgare duplicato di un telegiornale.
Tutto ciarpume intraducibile, insomma, che giustamente non valica le Alpi.




domenica 15 gennaio 2017

La malinconia dei Crusich





“Malinconici, rimuginatori, cacciatori di terre promesse, guardatori di lune e sensuali come zingari” (pag.71). Ecco il marchio familiare dei Crusich, uomini assetati di vita e proprio per questo irrequieti, segnati dal “contraddittorio istinto a cercare terre promesse e nello stesso tempo a metterci radici” (pag.331), consapevoli dell'inconsistenza di reali paradisi terrestri ma attratti inevitabilmente dal loro richiamo irrazionale. I Crusich che, se fossero solo istinto, sarebbero come il falco pellegrino liberato dai geti che, a fine libro, scompare non a caso nel chiarore della luna. Ma la razionalità umana blocca il loro dinamismo istintivo e li lascia preda di quello stato d'animo che Alfieri definisce “la solita malinconia, la noia, e l'insofferenza dello stare” (Vita scritto da esso, I, epoca III, cap.3). Una solita malinconia legata all'incresciosa coscienza dell'azione corrosiva del tempo, della fragilità dell'esistere, della precarietà degli affetti, dello svanire dei punti di riferimento fondamentali, della morte come punto di approdo naturale per ogni essere vivente.

Tuttavia la vita non riserva solo momenti di dolore (esemplari, in proposito, le pagine dedicate alla morte di Clementina, moglie di Agostino Crusich). Gianfranco Calligarich non intende presentare una visione lugubremente monocorde del soffocante determinismo che intrappola ognuno in un assurdo viaggio verso il nulla. La vita riserva anche momenti di felicità – come quando i membri della famiglia si riuniscono al termine del Secondo Grande Massacro Mondiale –, momenti di spensieratezza, di solidarietà, di amore. Il ricordo s'impone non soltanto nell'aspetto deteriore di un catalogo di defunti, di bambini irruenti deformati in anziani alcolisti, di rimpianti per amori non realizzati, di luoghi sgretolati in nebbiosi lacerti mnemonici. Ma s'impone anche nelle immagini piacevoli dell'infanzia. Un'infanzia, si badi, non rievocata ingenuamente come priva di lacerazioni interiori, ma contrassegnata soprattutto dalla volontà di cercare nuove prospettive esistenziali, di sognare avventure, per così dire, zingaresche, di scoprire il valore dell'amicizia, e caratterizzata anche dal divertimento perfino di giocare tra le macerie o di ridere di fronte a un petomane esibizionista.

Libro raro, La malinconia dei Crusich (Bompiani, 2016), non allineato all'odierna produzione narrativa italiana. Un'avvincente saga familiare e, al contempo, un minuzioso romanzo storico che non scivola mai in una banale celebrazione di personaggi mitizzati in virtù di uno scanzonato senso del limite, di un sottile umorismo che permea gran parte della narrazione. Narrazione, peraltro, impreziosita da una lingua avvolgente, lirica, priva di qualsiasi arcaismo, riluttante verso ogni rispetto formalistico delle regole grammaticali. Una lingua che punta all'epico ma che si attenua felicemente in una dolce sobrietà perché mitigata da un'ironia malinconica.