martedì 7 gennaio 2020

La testata di Zidane






L’indignazione urlata nelle piazze si profila come un mero, e molesto, riconoscimento d’impotenza; comporta più rabbia per se stessi e per la propria incapacità di agire che verso la causa o l’oggetto che l’ha provocata.
L’invettiva può determinare un notevole grado di compiacimento, può definirsi liberatoria ma lascia le radici di un’inettitudine virtuosistica che non oltrepassa la stilizzazione di un albero dipinto.
Il j’accuse, sebbene possegga il vantaggio dell’analisi lucida e dettagliata, si deforma spesso nell’apologia o, meglio, nella spettacolarizzazione dell’io ipertrofico dello scrivente.

Come, dunque, si potrebbe trattare al meglio un avvenimento che provoca un disgusto razionale, senza cadere nei lacci del pamphlet o del retoricume o dell’ingiuria, ed essere incisivi?
Forse con il filtro della conversazione pacata ma analitica tra personaggi distanti dall’io che scrive?

Diderot e James, ecco le fonti formali che Fabrizio Ottaviani confessa di avere seguito nella prefazione del denso, divertente, distruttivo La testata di Zidane (Mattioli 1885) per sfogare con civiltà il «fastidio viscerale» per «la mancata reazione degli italiani» davanti alla colpevolizzazione della parte lesa (Materazzi) e la giustificazione del colpevole (Zidane) frutto dell’«operazione mistificatoria» operata dai francesi e, alla fine, accettata dalla Fifa che, in un kafkiano processo a porte irrazionalmente chiuse, affibbiò la stessa squalifica alla vittima e al carnefice.
E la conversazione, che mantiene un nitore settecentesco, è messa finemente in bocca a tre transalpini, Jean, Marcelle ed Annette (uno psichiatra, un giurista, una sociologa), che vivono da anni a Roma e che palesano il vantaggio di una partecipazione così attiva e così scissa da divenire, paradossalmente, una terzietà.

Tuttavia, “La testata di Zidane” oltrepassa il fatto calcistico vero e proprio – nonostante il fastidio provocato dall’assenza del presidente della Fifa, lo svizzero Blatter, alla premiazione degli azzurri e del doppio invito all’Eliseo del presidente della repubblica francese, Jacques Chirac, al campione espulso, quasi a consolarlo per l’offesa subita (Zidane in quanto algerino, è chiaro: se questo non è razzismo!).

La testata diventa una sorte di sineddoche di un Volksgeist italico all’apparenza lussureggiante ma in realtà straccione; di un insensato, masochistico auto deprezzamento di una nazione che cela, nel 2006 come nel 2020, un incomprensibile senso d’inferiorità dietro alla maschera di carta velina di un orgoglio nazionale di accatto; di un patriottismo riconosciuto all’istante evanescente ma scambiato, forse con spirito capzioso, per post fascismo; di un’autostima in frantumi da parte di un popolo che si esprime tramite la quarta lingua più studiata al mondo ma che la imbastardisce con anglismi inutili e riempie ogni spazio (coppe e magliette comprese) unicamente di scritte inglesi.

Dall’altra parte, quella dei francesi, la testata diventa la sineddoche di un popolo che agisce da «bambino viziato che non vuole stare alle regole, che fa delle storie, che si tira fuori dal gioco quando sta per perdere».

Del resto – si potrebbe aggiungere come chiosa – tre anni dopo la Francia si qualificò, con grossolanità truffaldina, per i Mondiali del Sud Africa a discapito dell’Irlanda grazie a un goal segnato al dodicesimo dei tempi supplementari dello spareggio decisivo: Henry stoppò la palla con una mano, accanto alla porta avversaria, e la passò a Gallas che la infilò in rete.
La partita non fu ripetuta. Scoppiarono diverse polemiche ma la Francia non patì nessuna conseguenza. La Fifa, guidata sempre da Blatter, donò alla federazione calcistica irlandese, dopo qualche mese, cinque milioni d’euro per costruire uno stadio (un risarcimento?). Mentre a Parigi si festeggiava e a Roma si taceva.