venerdì 20 aprile 2018

Si spengono le stelle






La vecchia nutrice indiana, Nagi, spiega, a inizio libro, a una Susannah ancora bambina, che tutti gli esseri viventi e apparentemente non viventi, l'aria e gli astri compresi, non sono altro che l'emanazione del Wakantanka, di quell'impalpabile grande mistero immanente che non distingue ma unisce, che penetra il tutto radicandosi in modo panteistico nell'universo. Ogni singola esistenza non sarebbe altro che una parte costitutiva di un'armonia incorporante che, potenzialmente, dovrebbe collegare qualsiasi aspetto visibile e no in una pacifica convivenza naturale.

Il dramma della cultura occidentale risalirebbe, secondo Raimondi, nel concetto di individualità. O meglio, il singolo individuo, già dall’infanzia, scoprirebbe in sé una sostanziale evanescenza che produce disorientamento ma, forse per debolezza, preferisce accettare l’abbaglio solipsistico che lo conduce al rifiuto netto verso la separazione del proprio personaggio fittizio – rinchiuso in un ruolo artefatto di un'illusoria realtà da fiction – dall'unitaria essenza universale.

Il terrore del buio non illuminato dal lanternino personale – per ricollegarsi al Pirandello del Fu Mattia Pascal – per Raimondi non comporterebbe lo smarrimento dell'identità, ma la completa assenza di una reale empatia verso gli altri, al rinchiudersi a riccio nelle proprie labili convinzioni e nelle proprie contraddizioni moleste. Si tratterebbe, insomma, di una radicale incapacità d’immedesimazione che si degrada in una rabbia verso il prossimo motivata paradossalmente dall'incomprensione verso se stessi. Una rabbia che, a sua volta, si tradurrebbe in un conformismo spietato, in una perenne trasmutazione dell’io sociale in una sorta di polveriera pronta ad esplodere e a dilaniare chi non è intrappolato nell'inganno esistenziale, chi si allontana dalle regole delle convenzioni irrazionali su cui si fonderebbe l'inquietante paura di ogni comunità che difende furiosamente la propria identità fasulla.

Il disadattato appagato, l'eccentrico fino al paradosso, la ninfomane per scelta, il mistico di una religione non riconosciuta, il rivoluzionario culturale in tempi del pensiero unico, tutti coloro che sono derisi e offesi perché rappresentano la libertà allo stato puro, si rivelerebbero anche l'oggetto dell'odio più viscerale da parte di chi coglie, seppure inconsciamente, la loro forza primigenia, il loro stretto legame, per così dire, con il Wakantanka, e pertanto li teme in quanto sbigottito dalla prospettiva di un possibile sfaldamento delle effimere fondamenta sui cui si poggiano le varie certezze non dissonanti della propria comunità.
  
Ormai, nella società occidentale del Ventunesimo secolo, la crudeltà della maggioranza impaurita si attua tramite varie forme di emarginazione più o meno atroci, ma un tempo – come nella York di fine Seicento descritta dall’autore con la perizia dello storico erudito – si manifestava mediante delle brutalità ben più cruente che conducevano all'ebbrezza dell'efferato assassinio pubblico, vale a dire a dei macabri riti simbolici finalizzati alla liberazione collettiva dalle scorie del dubbio, dal terrore di scorgere delle prospettive di vita più libere, sì, ma anche meno consolatorie.

Su questo piano di furente pessimismo si snoda il bel romanzo di Matteo Raimondi, Si spengono le stelle (Mondadori, 2018), che mescola sapientemente vari generi (thriller, romanzo storico, noir) per narrare una storia i cui personaggi, pur nella loro costruzione plastica, si rivelano granitici, apparentemente delineati in maniera manichea, in realtà in bilico tra una dannazione e una redenzione non trascendente ma del tutto personale, immersi, come sono, in una scrittura mitopoietica che li rende delle fragili ma potenti immagini inquietanti scalfite, tuttavia, su una roccia friabile che li proietta al di là della loro breve contingenza per renderli transitoriamente atemporali.

Tra i poli apparentemente positivi e negativi dell'adolescente Susannah, incarnazione ambigua di una libertà assoluta ma forse anche genetica, e del reverendo Randall, antieroe spietato che si arrovella, nondimeno, nel calvario delle proprie aporie, ruotano dei personaggi tormentati da aspirazioni e debolezze, in perpetuo movimento ma, al contempo, paralizzati da un orizzonte allucinato che vieta loro di immaginare qualsiasi forma di fuga reale finché, come suggerisce il titolo che richiama Eliot, le stelle, anche loro parti integranti del Wakantanka, si spengono, ma soltanto per un personaggio, il più forte, il più consapevole, nonostante l'esperienza del dolore e della conseguente solitudine, nonostante la scoperta definitiva dell'inconsistenza di tutto ciò che si scambia per reale, di tutto ciò che si crede illusoriamente distinto.