venerdì 2 giugno 2017

I campi di maggio





Che cosa furono gli anni Settanta? Furono degli anni caratterizzati dall'idea che tutti avessero il diritto alla felicità oppure furono degli anni grigi, pieni di vittime e di cattivi maestri che pontificavano senza correre rischi?

Se la felicità si rispecchiava negli ideali tossici del raduno del parco Lambro, o nelle utopie terroristiche di alcuni fanatici che giustificavano i loro omicidi in virtù del bene comune – come se le vittime fossero dei meri mezzi inanimati per costruire un mondo migliore e non degli individui veri e propri con le loro speranze e le loro amarezze –, o se i maestri s'identificavano in Jean-Paul Sartre che accusava – in preda alla follia senile – le autorità italiane di uccisioni di ribelli innocenti e in Toni Negri che incitava alla rivoluzione proletaria per poi fuggire e discettare enfaticamente dalla Francia sulla situazione italiana, la risposta sembrerebbe scontata. Ma sarebbe anche troppo semplicistica. Tanto più che non terrebbe conto di ciò che fu rimosso completamente in quel decennio: il senso della vita e quello della morte.

Per non essere frainteso, Igor Patruno, in I campi di maggio (Ponte Sisto, 2015), già nella seconda pagina del suo magnifico romanzo mette in bocca a un personaggio, Riccardo, questa considerazione: «Osserva la disposizione degli oggetti in questa stanza. È il prodotto della mia visione del mondo. Quando non ci sarò più, perderà significato. La morte dissolve la posizione fisica e sentimentale che assegniamo alle cose e alle persone, perché quella posizione ha un senso solo per noi. Nessun altro potrebbe interiorizzarla allo stesso modo. Ci appartiene come individui, non è replicabile».

Già da questa breve citazione si possono rintracciare – o almeno immaginare senza poi essere smentiti – i punti cardini su cui ruota il malinconico pessimismo esistenziale di Patruno: la precarietà di ogni singola esistenza, la solitudine ontologica, l'incomunicabilità dei singoli dolori, l'assurdità dell'indifferenza verso le sorti degli estranei insita nel dna di ogni essere vivente, l'inammissibile astio e ostilità che corrode i rapporti tra gli uomini e che accresce il naturale male di vivere.

Patruno, con uno stile fluido ma al contempo elegante, crea un tunnel illuminato da luci scialbe che attraversa la narrazione e l'arricchisce di un senso profondamente diverso da quello più evidente.

Un tunnel oscuro che conduce all'amara presa di coscienza dei limiti della sensibilità umana («Viviamo inconsapevoli di quante persone conosciute, magari solo superficialmente, se ne sono andate mentre stavamo guardando la televisione, o fantasticando sulla sconosciuta seduta sulla metro. Dentro di noi continuano a vivere come esistenze sospese, come entità appese in una cella del cervello. Ma nella realtà non ci sono più», pag.242).

Un tunnel oscuro che, tuttavia, rende sempre più chiara la vanità delle occupazioni-preoccupazioni individuali, la crudeltà illogica di ogni violenta lotta politica, dal momento che la morte incombe su tutti fin dal primo vagito («Mi piaceva guardare i treni passare. (…) Di notte era uno spettacolo! (…) Intravedevo fisionomie sbiadite di passeggeri addormentati, oppure intenti a chiacchierare, a leggere, a rovistare nelle borse. (…) Ci guardavamo senza vederci davvero, percependo nient'altro che ombre. Provavo nostalgia per la fragilità di quelle vite in movimento e per la mia, in bilico su una terrazza di fronte al mondo. Mi sembrava di cogliere l'assurdità della vita. (…) Qualsiasi fosse la destinazione dei viaggiatori, qualsiasi fosse il mio destino, la vita si mostrava come un flusso sconclusionato, governato dal caso. Un treno in corsa dal quale non si poteva scendere», pag.224).

Un tunnel oscuro che porta il protagonista del romanzo, Antonio Delle Piane, alla conclusione che la ricerca della verità sull'omicidio della ventunenne Silvana – omicidio avvenuto quarant'anni prima – sia non solo una ricerca impossibile ma anche inutile. Che lo porta, in altri termini, alla coscienza che ciò che tragicamente risulta fondamentale sia ormai soltanto il dolore dei familiari e di chi ha voluto bene alla ragazza.

Ed è questa, alla fine, l'unica atroce constatazione che conta, che lacera ancora di più di ogni personale rielaborazione di un lutto: il permanere della sofferenza privata.

Patruno è un grande scrittore. Con un'estrema dovizia di particolari crea un romanzo fondato su una quête irraggiungibile. Sa calibrare i tempi, sondare nei più remoti angoli della psiche dei personaggi tanto da renderli reali, dei round characters, come li avrebbe definiti Forster. La ricostruzione storica è perfetta. L'autore non lascia nessuno spazio al pittoresco né tanto meno alla più stolida nostalgia. E tale distacco si rivela un ulteriore pregio per un romanzo suggestivo.