domenica 29 gennaio 2017

Lo scrittore non ha fame






“Le variabili che regolano la vita, anche la più programmata, sono sempre in agguato: sono atomi che tentiamo di addomesticare, per tenerli sotto controllo. Noi, piccoli uomini ignari, atomi vaganti noi stessi, ci illudiamo di dominare il mondo, la natura, i destini nostri e altrui. Invece gli atomi che ci ruotano attorno vivono di vita propria, cozzano tra loro e con noi, una spinta casuale li sposta, veloci o lentissimi; quando incrociano la nostra vita il certo diventa impossibile, l'irrealizzabile diviene certo, quanto costruito con fatica svanisce come la nebbia del mattino al primo sole” (pag.47).

È in gran parte il caso a determinare il corso delle singole esistenze. Il successo o il fallimento non sono soltanto deterministicamente figli di un fantomatico merito, ma derivano soprattutto da varianti irrazionali, da mere combinazioni imprevedibili che distruggono qualsiasi certezza granitica per affondarla nel pantano dell'insicurezza. Come reagire se la propria vita è sconvolta da cambiamenti radicali, da atomi impazziti che demoliscono la fragile costruzione di un fittizio equilibrio interiore ed esteriore, da schegge inattese che fracassano il caldo nido degli affetti illusoriamente immutabili?

Non credo che Maria Letizia Putti, nel bel romanzo Lo scrittore non ha fame (Graphofeel, 2016), intenda proporre una risposta univoca a tale interrogativo angosciante. Anzi, con sottile ironia Putti evade dalle brutture della realtà, dalle meschinità che deturpano i rapporti tra gli uomini, dai malesseri familiari che creano spesso le più terribili sofferenze mentali, dalle basse invidie che si celano talvolta nei rapporti di amicizia, per soffermarsi su un mondo civilmente ideale e indicare una possibile via di fuga dal caos, dalla fragilità dell'essere, dal tempo che trascina via qualsiasi ombra di apparente appagamento. Una possibile via di fuga a sua volta utopica, transitoria – come si evince nella pagina finale del libro –, dato che gli atomi continuano in ogni caso a cozzare tra loro e a sconvolgere irrazionalmente i punti fermi delle gracili convinzioni individuali.

Andrea Visconti, il pacifico protagonista, solo dopo la traumatica esperienza del successo, della notorietà alienante che lo strappa dalla vita tranquilla di marito e di padre, capisce il valore delle piccole cose, degli affetti familiari, delle complicità con gli amici. In altri termini, è proprio il trionfo mediatico, che lo sradica dell'angulus oraziano, ad aiutarlo a cogliere il valore della cosiddetta normalità. Sconvolto, compie, anzi cerca di compiere un paradossale ritorno verso l'anonimato appagante ma ormai perso per sempre.

Su questo sottofondo epicureo si dipana un romanzo gradevole, ben scritto, dall'immediata decifrabilità, apparentemente ottimistico ma in realtà tormentato, cosciente dell'inconsistenza di ogni sentore di felicità statica. Meglio ridere che disperarsi, suggerisce Putti. E lo fa con una scanzonata sensibilità femminile e con un ritmo narrativo avvolgente e convincente.

mercoledì 25 gennaio 2017

Roma spacciata




Ho la fortuna di abitare in un quartiere residenziale in una via silenziosa perché priva di negozi, abbellita da palazzi d'inizio XX secolo e allietata, all'alba, dal canto degli uccellini che nidificano nella vicina Villa Ada. 
Tuttavia, all'inizio di questa splendida via, ogni giorno qualche macchina parcheggia sulle strisce pedonali e ostruisce un piccolo scivolo per disabili. Ed è difficile scorgere una contravvenzione o udire delle proteste da parte dei residenti. 
A volte, invece, capita che un'auto si metta nei parcheggi riservati ai motorini. Allora l'indignazione esplode: i tergicristalli vengono alzati se non addirittura divelti, la vernice sugli sportelli graffiata, la carrozzeria deturpata da piccole, astiose ammaccature.
Credo che la mia via sia un fedele specchio dell'inciviltà della Roma di questi anni Dieci. Una Roma in cui non s'intravede nessuna base culturale per ricostruire una nuova dimensione civile, in cui domina un egoismo gretto che esaspera gli pseudo diritti e se ne infischia dei propri doveri, in cui il “particulare” è stimato come unico valore esistenziale, in cui la collettività è considerata come un fastidioso intralcio da disprezzare.
Roma è spacciata.
Può cambiare sindaco ma non può cambiare più se stessa.
Se si riuscisse realisticamente a nutrire una speranza di palingenesi nelle nuove generazioni, se si riuscisse a notare in loro una minima determinazione di trarre fuori la Città Eterna dal fango del degrado civile in cui si è impantanata, di liberarla dal tanfo della spazzatura materiale e morale in cui marcisce, forse si potrebbe credere in un futuro migliore.
Ma quanti anni avranno i motociclisti che se ne sbattono delle auto parcheggiate sulle strisce e si adirano per quelle che usurpano il loro posteggio? Diciotto? Venti? Non saranno forse loro i romani adulti dei prossimi lustri? Si può forse attendere da tale teppaglia il ripristino di un barlume di civiltà?
Roma è spacciata.
Due sono le soluzioni per non essere contaminati dalla sua volgarità desolata e ormai inguaribile. La prima è quella di scappare senza rimpianti altrove. La seconda è quella di adeguarsi all'inciviltà e divenire, per sopravvivere, dei prepotenti aggressivi.

domenica 22 gennaio 2017

La parte plastica della letteratura




 

Questa è la parte plastica della letteratura: incarnare un personaggio, un pensiero o un'emozione in un atto o in un atteggiamento che colpisca profondamente l'occhio della mente” (R.L.Stevenson, A Gossip on Romance, 1882).
Ed è proprio la parte plastica della letteratura la base su cui poggia, per così dire, l'individuale persistenza interiore di un capolavoro.
Stevenson esemplifica affermando che “Crusoe che indietreggia davanti a un'orma” sia “il momento culminante della
leggenda”, tutto il resto può essere anche dimenticato, perfino l'eventuale commento ingegnoso di Defoe.
Come non concordare? Chi non ricorda le lacrime di Astianatte di fronte al padre armato, la rabbia di Laocoonte prima di essere stritolato con i figli dai due serpenti marini, l'imbarazzo di Paolo e Francesca mentre leggono il bacio tra Lancillotto e Ginevra, lo smarrimento di Orlando quando riconosce la grafia di Angelica, la determinazione delirante di Don Chisciotte prima di scagliarsi contro ai mulini a vento, l'inquietudine di Faust che si vede seguito fino al suo studio da un cane nero, la disperazione di don Rodrigo quando scorge il bubbone sotto l'ascella, il ripugnante risveglio di Samsa, il riso di padre Flynn nel confessionale.
Ecco uno dei motivi per i quali la narrativa italiana di questo secolo non ha lettori all'estero. Un cospicuo numero di critici snob e potenti, persi dietro al dannunzianesimo di fondo di molti autori nostrani, esaltano la verbosità velleitaria di scrittori inconsistenti e sminuiscono la concretezza plastica di chi crede nella forza della narrazione. I mass media danno spazio quasi esclusivamente agli scrittori-personaggi televisivi o a improvvisati scribacchini che trascrivono i fatti di cronaca colorandoli con le invenzioni più scontate. Sicché ciò che emerge dall'odierno panorama letterario italiano si rivela o un presuntuoso nulla che sprofonda nel più tedioso estetismo sterile o un volgare duplicato di un telegiornale.
Tutto ciarpume intraducibile, insomma, che giustamente non valica le Alpi.




domenica 15 gennaio 2017

La malinconia dei Crusich





“Malinconici, rimuginatori, cacciatori di terre promesse, guardatori di lune e sensuali come zingari” (pag.71). Ecco il marchio familiare dei Crusich, uomini assetati di vita e proprio per questo irrequieti, segnati dal “contraddittorio istinto a cercare terre promesse e nello stesso tempo a metterci radici” (pag.331), consapevoli dell'inconsistenza di reali paradisi terrestri ma attratti inevitabilmente dal loro richiamo irrazionale. I Crusich che, se fossero solo istinto, sarebbero come il falco pellegrino liberato dai geti che, a fine libro, scompare non a caso nel chiarore della luna. Ma la razionalità umana blocca il loro dinamismo istintivo e li lascia preda di quello stato d'animo che Alfieri definisce “la solita malinconia, la noia, e l'insofferenza dello stare” (Vita scritto da esso, I, epoca III, cap.3). Una solita malinconia legata all'incresciosa coscienza dell'azione corrosiva del tempo, della fragilità dell'esistere, della precarietà degli affetti, dello svanire dei punti di riferimento fondamentali, della morte come punto di approdo naturale per ogni essere vivente.

Tuttavia la vita non riserva solo momenti di dolore (esemplari, in proposito, le pagine dedicate alla morte di Clementina, moglie di Agostino Crusich). Gianfranco Calligarich non intende presentare una visione lugubremente monocorde del soffocante determinismo che intrappola ognuno in un assurdo viaggio verso il nulla. La vita riserva anche momenti di felicità – come quando i membri della famiglia si riuniscono al termine del Secondo Grande Massacro Mondiale –, momenti di spensieratezza, di solidarietà, di amore. Il ricordo s'impone non soltanto nell'aspetto deteriore di un catalogo di defunti, di bambini irruenti deformati in anziani alcolisti, di rimpianti per amori non realizzati, di luoghi sgretolati in nebbiosi lacerti mnemonici. Ma s'impone anche nelle immagini piacevoli dell'infanzia. Un'infanzia, si badi, non rievocata ingenuamente come priva di lacerazioni interiori, ma contrassegnata soprattutto dalla volontà di cercare nuove prospettive esistenziali, di sognare avventure, per così dire, zingaresche, di scoprire il valore dell'amicizia, e caratterizzata anche dal divertimento perfino di giocare tra le macerie o di ridere di fronte a un petomane esibizionista.

Libro raro, La malinconia dei Crusich (Bompiani, 2016), non allineato all'odierna produzione narrativa italiana. Un'avvincente saga familiare e, al contempo, un minuzioso romanzo storico che non scivola mai in una banale celebrazione di personaggi mitizzati in virtù di uno scanzonato senso del limite, di un sottile umorismo che permea gran parte della narrazione. Narrazione, peraltro, impreziosita da una lingua avvolgente, lirica, priva di qualsiasi arcaismo, riluttante verso ogni rispetto formalistico delle regole grammaticali. Una lingua che punta all'epico ma che si attenua felicemente in una dolce sobrietà perché mitigata da un'ironia malinconica.