martedì 29 dicembre 2020

La casa degli uccelli


 


Scopriamo le carte: non sono un fan dei romanzi storici. O meglio, non è che io non sia un fan del genere in quanto tale. Rimango, in qualche modo, perplesso perché reputo difficile, quasi impossibile, leggere un romanzo storico senza annoiarmi, senza addirittura provare fastidio. E non intendo parlare soltanto delle produzioni recenti.

Mi spiego. Provate a prenderne in mano uno a caso – tra quelli di alto livello, s’intenda – e a sfogliarlo anche con un’attenzione superficiale, ed ecco che venite travolti dal pittoresco, dal romanzesco, da un impianto saggistico che trapela perfino nei dialoghi, dall’affresco sociale che soffoca la linearità del racconto, da personaggi privi di spessore che ripetono con monotonia la fissità del loro essere, da descrizioni minute di acconciature, di abiti, di cibi e di ambienti per niente funzionali all’intreccio, ma messi a bella posta per sottintendere lo sforzo titanico delle ricerche compiute, per conferire una patina di verosimiglianza storiografica ai caratteri e agli eventi, nella certezza della stima inevitabile da parte del lettore insipiente.

Ma tra tante ostriche indigeste, talvolta capita di coglierne una che cela una perla.

La casa degli uccelli, di Laura Bosio e Bruno Nacci (Guanda, pag. 286), è un bel libro, appassionante, dal ritmo rapido ma non convulso, degno di divenire un bestseller nonostante sia scevro dagli stolidi cliché imposti dagli editor poco coraggiosi.

Ambientato tra la primavera e l’estate del 1794, in una Parigi sconvolta dal Terrore, La casa degli uccelli riesce, per l’appunto, nel miracolo di non cadere né negli stereotipi della letteratura di genere né nello sfoggio erudito, pur partendo da un drammatico avvenimento reale.

Dentro a un palazzo in rovina – chiamato comunemente casa degli uccelli perché immerso in un giardino fornito di voliere ormai senza volatili (quelli che vi vivevano, erano stati liberati da una folla inferocita) –  gravita la più composita umanità:

Coloro che hanno il permesso di entrare e di uscire, come il barbiere Bertier, un uomo che sconcerta nel suo rivelarsi in bilico tra la solidarietà e il cinismo. Coloro che, sebbene esterni, influiscono nella casa più dei presenti, come il giudice Fouquier-Tinville – delineato finemente nel suo caos interiore che amalgama integrità,  malinconia e ambivalenza – la cui ombra cala e avvolge minacciosa in ogni dove e in ogni pensiero di tutta Parigi, casa compresa. Coloro che si rivelano i reclusi solventi, i prigionieri che non desiderano la libertà (come alcuni uccelli che nel prologo si dimostrano riluttanti a lasciare le gabbie), i segregati all’apparenza soddisfatti della propria detenzione: piccoli nobili, alti borghesi, ufficiali in pensione, lestofanti di successo, tutti compromessi con l’Ancien Régime, tutti «ciechi e sordi a tutto se non a quello che volevano vedere e sentire» (p.262). Coloro, infine, che si ritrovano rinchiusi per fedeltà talora imposta, i servi, costretti fino all’ultimo a condividere la sorte dolorosa dei loro padroni.

Una varia umanità, insomma, brulica in questo romanzo corale. Un’umanità dolente, agitata, che si abbandona al presente reiterando il passato; che riproduce gli ormai anacronistici vanti superbi e i vezzi spocchiosi seppure ormai privi di ogni riconoscimento sociale; che si inebria in un libertinismo ormai degradato nel vuoto di una falsa inconsapevolezza; che itera con poca convinzione il divertimento mondano più fatuo; che amplifica la vacuità del pettegolezzo per difendersi dall’irrazionale che schiaccia le desolanti convenzioni secolari., per forgiarsi uno scudo friabile dinnanzi all’incombere di un destino tragico,

Una varia umanità, in altri termini, che si finge drogata, ma che in fondo è fin troppo lucida della propria precarietà, dal più coinvolto al più innocente.

E noi lettori non possiamo fare altro che seguire ma non immedesimarci (gran pregio!) con le donne smarrite e gli uomini perduti  che si muovono come traballanti marionette grottesche (come le parrucche della falsa baronessa Manneville), marionette barcollanti prive di coordinate, ma che mantengono l’espressione di sempre, sebbene il colore si sia sbiadito, sebbene siano in procinto di essere arse.

Noi lettori quasi ci trasformiamo in un pubblico teatrale che segue, con attenzione e freddezza, i mal dissimulati tormenti di donne disperate e di uomini sbigottiti, ma non redenti, anzi astiosi quanto mai, privi di qualsiasi vestigia di solidarietà.

Forse potremmo scorgere una donna e un ragazzo puri. Charlotte e Dominique, gli unici in grado di separare il passato e il presente dal futuro, per quanto tale futuro si riveli fragilmente eventuale.

Tuttavia, la ricerca della non complicità, del disinteresse nobilitante, della purezza, della bontà in un mondo di una desolata tristizia rimane a volte un’illusione appagante per non affrontare con schiettezza brutale la realtà.

lunedì 9 marzo 2020

Miss Rosselli







Come evitare, in una biografia, il prevedibile svolgersi cronologico di avvenimenti e di considerazioni che puntano o a un’oggettività ambiziosa o a una soggettività filologicamente, sì, impeccabile, ma che si appoggia, inevitabilmente, su un’illusione deterministica, quasi fosse un platano senza radici tratteggiato con perizia intorpidita in un acquerello da sala d’aspetto?

Renzo Paris lo sa, ne è una riprova Miss Rosselli (Neri Pozza). Sa della scarsa importanza  delle descrizioni fattuali e della necessità dello sgretolamento dei canoni, dell’esigenza dell’evocazione, compromessa dall’intrusione dell’io, che, per forza di cose, mostra una sorta di friabilità solida sovrapponendosi a ogni scontata intenzionalità narrativa.

E così Amelia Rosselli non subisce la distorsione di una volontà narcisistica che, nascondendosi, intende ridurre nel già letto il suo essere dolente, e la sua lacerazione diuturna non viene segmentata ottusamente (o furbescamente) in una serie di aneddoti, di lodi, di invettive, di pietismi, di riconoscimenti di vizi e di virtù.

La prospettiva rimane costantemente traballante, in quanto trema la mano che sorregge la telecamera dei ricordi. Una telecamera che a volte sfuma, a volte si perde nella nebbia di una memoria evanescente, a volte irrigidisce i particolari come fossero dei monoliti, altre volte li distorce con l’onesta di chi confessa di soffrire, appunto, di tremori gradevoli. E il centro si sposta sulla voce narrante (un tempo si sarebbe detto sul locutario) che finge di derivare dalle tensioni di un personaggio reale pur lanciando, forse per onestà, continui messaggi non ermetici per rendere più fruibili le reali intenzioni rappresentative.

Il personaggio creato, Miss Rosselli, si delinea, in tal modo, rientrando in un intreccio ben costruito, incorniciato, per di più, da due fragili episodi pseudo autobiografici, che quasi sottintendono la non erroneità di qualsiasi sentore di rievocazione che vada oltre la razionalità, la non infondatezza di ogni definizione-visione della statua paradossale di una divinità ambigua scolpita, in maniera indelebile, su un marmo mentale (con le sue risate brutali, gli eccessi della sua malattia), in costante rapporto-scontro con degli alter ego (le donne di Paris, gli amorastri) che suggeriscono innumerevoli traverse di una strada dal cemento privo di crepe.

L’ondeggiare continuo tra il passato e il presente, che s’infrange nei marosi delle intermittences du coeur, talora si fortifica in virtù di testimonianze più o meno credibili di artisti partecipi che suggeriscono, incoraggiano, talora insultano, ma in ogni modo arricchiscono il libero avanzare delle illuminazioni involontarie con nuances di matrice giallistica senza inficiare la nostalgia di fondo, il rammarico malinconico che invade perfino le parti più saggistiche di un libro difficilmente dimenticabile.


martedì 7 gennaio 2020

La testata di Zidane






L’indignazione urlata nelle piazze si profila come un mero, e molesto, riconoscimento d’impotenza; comporta più rabbia per se stessi e per la propria incapacità di agire che verso la causa o l’oggetto che l’ha provocata.
L’invettiva può determinare un notevole grado di compiacimento, può definirsi liberatoria ma lascia le radici di un’inettitudine virtuosistica che non oltrepassa la stilizzazione di un albero dipinto.
Il j’accuse, sebbene possegga il vantaggio dell’analisi lucida e dettagliata, si deforma spesso nell’apologia o, meglio, nella spettacolarizzazione dell’io ipertrofico dello scrivente.

Come, dunque, si potrebbe trattare al meglio un avvenimento che provoca un disgusto razionale, senza cadere nei lacci del pamphlet o del retoricume o dell’ingiuria, ed essere incisivi?
Forse con il filtro della conversazione pacata ma analitica tra personaggi distanti dall’io che scrive?

Diderot e James, ecco le fonti formali che Fabrizio Ottaviani confessa di avere seguito nella prefazione del denso, divertente, distruttivo La testata di Zidane (Mattioli 1885) per sfogare con civiltà il «fastidio viscerale» per «la mancata reazione degli italiani» davanti alla colpevolizzazione della parte lesa (Materazzi) e la giustificazione del colpevole (Zidane) frutto dell’«operazione mistificatoria» operata dai francesi e, alla fine, accettata dalla Fifa che, in un kafkiano processo a porte irrazionalmente chiuse, affibbiò la stessa squalifica alla vittima e al carnefice.
E la conversazione, che mantiene un nitore settecentesco, è messa finemente in bocca a tre transalpini, Jean, Marcelle ed Annette (uno psichiatra, un giurista, una sociologa), che vivono da anni a Roma e che palesano il vantaggio di una partecipazione così attiva e così scissa da divenire, paradossalmente, una terzietà.

Tuttavia, “La testata di Zidane” oltrepassa il fatto calcistico vero e proprio – nonostante il fastidio provocato dall’assenza del presidente della Fifa, lo svizzero Blatter, alla premiazione degli azzurri e del doppio invito all’Eliseo del presidente della repubblica francese, Jacques Chirac, al campione espulso, quasi a consolarlo per l’offesa subita (Zidane in quanto algerino, è chiaro: se questo non è razzismo!).

La testata diventa una sorte di sineddoche di un Volksgeist italico all’apparenza lussureggiante ma in realtà straccione; di un insensato, masochistico auto deprezzamento di una nazione che cela, nel 2006 come nel 2020, un incomprensibile senso d’inferiorità dietro alla maschera di carta velina di un orgoglio nazionale di accatto; di un patriottismo riconosciuto all’istante evanescente ma scambiato, forse con spirito capzioso, per post fascismo; di un’autostima in frantumi da parte di un popolo che si esprime tramite la quarta lingua più studiata al mondo ma che la imbastardisce con anglismi inutili e riempie ogni spazio (coppe e magliette comprese) unicamente di scritte inglesi.

Dall’altra parte, quella dei francesi, la testata diventa la sineddoche di un popolo che agisce da «bambino viziato che non vuole stare alle regole, che fa delle storie, che si tira fuori dal gioco quando sta per perdere».

Del resto – si potrebbe aggiungere come chiosa – tre anni dopo la Francia si qualificò, con grossolanità truffaldina, per i Mondiali del Sud Africa a discapito dell’Irlanda grazie a un goal segnato al dodicesimo dei tempi supplementari dello spareggio decisivo: Henry stoppò la palla con una mano, accanto alla porta avversaria, e la passò a Gallas che la infilò in rete.
La partita non fu ripetuta. Scoppiarono diverse polemiche ma la Francia non patì nessuna conseguenza. La Fifa, guidata sempre da Blatter, donò alla federazione calcistica irlandese, dopo qualche mese, cinque milioni d’euro per costruire uno stadio (un risarcimento?). Mentre a Parigi si festeggiava e a Roma si taceva.