lunedì 9 marzo 2020

Miss Rosselli







Come evitare, in una biografia, il prevedibile svolgersi cronologico di avvenimenti e di considerazioni che puntano o a un’oggettività ambiziosa o a una soggettività filologicamente, sì, impeccabile, ma che si appoggia, inevitabilmente, su un’illusione deterministica, quasi fosse un platano senza radici tratteggiato con perizia intorpidita in un acquerello da sala d’aspetto?

Renzo Paris lo sa, ne è una riprova Miss Rosselli (Neri Pozza). Sa della scarsa importanza  delle descrizioni fattuali e della necessità dello sgretolamento dei canoni, dell’esigenza dell’evocazione, compromessa dall’intrusione dell’io, che, per forza di cose, mostra una sorta di friabilità solida sovrapponendosi a ogni scontata intenzionalità narrativa.

E così Amelia Rosselli non subisce la distorsione di una volontà narcisistica che, nascondendosi, intende ridurre nel già letto il suo essere dolente, e la sua lacerazione diuturna non viene segmentata ottusamente (o furbescamente) in una serie di aneddoti, di lodi, di invettive, di pietismi, di riconoscimenti di vizi e di virtù.

La prospettiva rimane costantemente traballante, in quanto trema la mano che sorregge la telecamera dei ricordi. Una telecamera che a volte sfuma, a volte si perde nella nebbia di una memoria evanescente, a volte irrigidisce i particolari come fossero dei monoliti, altre volte li distorce con l’onesta di chi confessa di soffrire, appunto, di tremori gradevoli. E il centro si sposta sulla voce narrante (un tempo si sarebbe detto sul locutario) che finge di derivare dalle tensioni di un personaggio reale pur lanciando, forse per onestà, continui messaggi non ermetici per rendere più fruibili le reali intenzioni rappresentative.

Il personaggio creato, Miss Rosselli, si delinea, in tal modo, rientrando in un intreccio ben costruito, incorniciato, per di più, da due fragili episodi pseudo autobiografici, che quasi sottintendono la non erroneità di qualsiasi sentore di rievocazione che vada oltre la razionalità, la non infondatezza di ogni definizione-visione della statua paradossale di una divinità ambigua scolpita, in maniera indelebile, su un marmo mentale (con le sue risate brutali, gli eccessi della sua malattia), in costante rapporto-scontro con degli alter ego (le donne di Paris, gli amorastri) che suggeriscono innumerevoli traverse di una strada dal cemento privo di crepe.

L’ondeggiare continuo tra il passato e il presente, che s’infrange nei marosi delle intermittences du coeur, talora si fortifica in virtù di testimonianze più o meno credibili di artisti partecipi che suggeriscono, incoraggiano, talora insultano, ma in ogni modo arricchiscono il libero avanzare delle illuminazioni involontarie con nuances di matrice giallistica senza inficiare la nostalgia di fondo, il rammarico malinconico che invade perfino le parti più saggistiche di un libro difficilmente dimenticabile.