“Malinconici,
rimuginatori, cacciatori di terre promesse, guardatori di lune e
sensuali come zingari” (pag.71). Ecco il marchio familiare dei
Crusich, uomini assetati di vita e proprio per questo irrequieti,
segnati dal “contraddittorio istinto a cercare terre promesse e
nello stesso tempo a metterci radici” (pag.331), consapevoli
dell'inconsistenza di reali paradisi terrestri ma attratti
inevitabilmente dal loro richiamo irrazionale. I Crusich che, se
fossero solo istinto, sarebbero come il falco pellegrino liberato dai
geti che, a fine libro, scompare non a caso nel chiarore della luna.
Ma la razionalità umana blocca il loro dinamismo istintivo e li
lascia preda di quello stato d'animo che Alfieri definisce “la
solita malinconia, la noia, e l'insofferenza dello stare” (Vita
scritto da esso, I, epoca III, cap.3). Una solita malinconia
legata all'incresciosa coscienza dell'azione corrosiva del tempo,
della fragilità dell'esistere, della precarietà degli affetti,
dello svanire dei punti di riferimento fondamentali, della morte come
punto di approdo naturale per ogni essere vivente.
Tuttavia la vita non
riserva solo momenti di dolore (esemplari, in proposito, le pagine
dedicate alla morte di Clementina, moglie di Agostino Crusich).
Gianfranco Calligarich non intende presentare una visione
lugubremente monocorde del soffocante determinismo che intrappola
ognuno in un assurdo viaggio verso il nulla. La vita riserva anche
momenti di felicità – come quando i membri della famiglia si
riuniscono al termine del Secondo Grande Massacro Mondiale –,
momenti di spensieratezza, di solidarietà, di amore. Il ricordo
s'impone non soltanto nell'aspetto deteriore di un catalogo di
defunti, di bambini irruenti deformati in anziani alcolisti, di
rimpianti per amori non realizzati, di luoghi sgretolati in nebbiosi
lacerti mnemonici. Ma s'impone anche nelle immagini piacevoli
dell'infanzia. Un'infanzia, si badi, non rievocata ingenuamente come
priva di lacerazioni interiori, ma contrassegnata soprattutto dalla
volontà di cercare nuove prospettive esistenziali, di sognare
avventure, per così dire, zingaresche, di scoprire il valore
dell'amicizia, e caratterizzata anche dal divertimento perfino di
giocare tra le macerie o di ridere di fronte a un petomane
esibizionista.
Libro raro, La
malinconia dei Crusich (Bompiani,
2016), non allineato all'odierna produzione narrativa
italiana. Un'avvincente saga familiare e, al contempo, un minuzioso
romanzo storico che non scivola mai
in una banale celebrazione di personaggi mitizzati in virtù di uno
scanzonato senso del limite, di un sottile umorismo che permea gran
parte della narrazione. Narrazione, peraltro, impreziosita da una
lingua avvolgente, lirica, priva di qualsiasi arcaismo, riluttante
verso ogni rispetto formalistico delle regole grammaticali. Una
lingua che punta all'epico ma che si attenua felicemente in una dolce
sobrietà perché mitigata da un'ironia malinconica.
Sempre la solita solfa molto bella ma lunga. Quindi diciamo breve saggio che più si attaglia a quello che è stato scritto
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