domenica 10 dicembre 2017

Il continente Roma






Quando avevo tre anni, mi trasferii da Monteverde Vecchio al quartiere Trieste.
Mia nonna acquistò una farmacia e una casa a piazza Crati. Due delle tre figlie, fra cui mia madre, la seguirono. E io mi ritrovai a crescere da triestino.
Ho trascorso un'infanzia misantropica, un'adolescenza problematica e un post adolescenza saccente tra la borghesia perbenista del mio nuovo quartiere che, sotto a una facciata di una esibita civiltà consolidata, celava l'astio del risentimento sociale, la certezza granitica di un'identità nei fatti friabile, il terrore dell'irruzione violenta del diverso, il disprezzo nei confronti di ogni prospettiva palingenetica. Prospettiva palingenetica, peraltro, disdegnata perfino da me che, da bravo borghese, detestavo la mia classe sociale ma non coglievo dei differenti orizzonti esistenziali.
Finita l'università, giunse la decisione di allontanarmi da me stesso e di spostarmi a Prati, di fuggire, in altri termini, dalla soffocante identificazione con un esterno interiorizzato verso la rassicurante diversità di un quartiere altrettanto borghese.
Per tre anni mi sentii un estraneo, un intruso in un ambiente troppo incompatibile, pur nelle sue analogie, per individuare una possibile integrazione futura. E tornai indietro. Tornai al disarmonico abbraccio della mia vera città detestata: il quartiere Trieste.

Chi non è romano, anche solo di una generazione, non può capirmi, non può accorgersi delle sfumature essenziali che, al di là dello scorrere del tempo, rendono tra loro inconciliabili le diverse parti di Roma (perfino quelle che parrebbero equivalenti), non può cogliere che Roma non è una città, ma è un continente, non può comprendere che i suoi quartieri non sono delle semplici zone topografiche di un unicum urbano, ma sono delle nazioni.
Credere che questo estremo ma omogeneo frazionamento-isolamento paradossale sia scomparso, che sia confinato magari nella piccola città papalina glorificata e oltraggiata da Belli, significa o giudicare Roma attraverso gli stereotipi da Corriere della sera, o essere dei forestieri che – come scrive Cirillo – abitano o abitavano a Roma ma non ci vivono o non ci vivevano, tanto più che si rivela un'illusione ritenere possibile vivere davvero a Roma per un non romano, per uno straniero che mai riuscirà a integrarsi nell'essenza polimorfa di un continente che simula di essere una città, che dissimula la propria interiorità ostentando delle esibizionistiche viscere ributtanti, delle profonde crepe su un muro fatiscente.
Lo straniero, per forza di cose, si ferma alla scorza e generalizza mentre gli sfugge la complessità familiare di una molteplicità organica sebbene slabbrata. Il romano no, specifica, distingue a volte emettendo giudizi fasulli, a volte fingendo una disarmonia risentita che spesso si esplica in dichiarazioni d'intenti evasivi che lo stesso romano sa già che non si realizzeranno a meno che non intervenga qualche imprevisto sgradevole.

Sfogliando il bel libro antologico, curato da Silvana Cirillo, Roma punto a capo (Ponte Sisto, 2017), si scorge che il veneto Parise accostava i romani ai gatti che “stanno fermi e di solito ronfano o fanno finta di dormire,” che “ogni tanto aprono un occhio, un occhio assolutamente sveglio e si guardano intorno” per capire “se è il caso di muoversi o no, se non è il caso, richiudono l'occhio e riprendono a dormire o a fingere di dormire” (p.248). Si scopre che l'abruzzese Flaiano scriveva che Roma “non giudica , assolve, e allora chi lavora in questa città si sente un po' come un cane senza collare”. Si apprende che l'emiliano Malerba affermava che “ogni rapporto con Roma è fatalmente fondato sulla ambiguità: la si può odiare furiosamente e continuare ad amarla in segreto, di lei si può dire tutto il male e tutto il bene possibile” (p.119).
Belle frasi, argute, perfino affascinanti, ma che rivelano un completo fraintendimento, una totale mancanza della coscienza, vivissima invece nel milanese Manganelli (come nota finemente il romano Cortellessa) che nei risvolti di copertina dei suoi libri asseriva di “risiedere” a Roma, non di “viverci” (p.135).
I veri romani operano separazioni, avanzano semmai per giustapposizioni non per addizioni, possiedono la consapevolezza che la propria città sia appunto un continente che travalica l'unità, la scoprono come l'ha scoperta Moravia, “in maniera non turistica” ma “attraverso le frequentazioni della vita quotidiana” (p.153), ma a volte travisano, portando se stessi, e il proprio inestirpabile marchio territoriale, in un altrove stridente seppure appena appena.
Lo stesso Moravia, d'altro canto, trascinò la propria interiorità da via Sgambati a via dell'Oca e scorse attorno a sé un'intima proiezione della propria profonda dissonanza territoriale. Ma – da acuto osservatore di tutto ciò che era estraneo alla sua intima coscienza – non equivocò, non travisò, non accomunò le pur lievi inconciliabilità fattuali: I quartieri di Roma, perfino quelli limitrofi, presentano delle peculiarità che non sfuggono, per esempio, all'universo caleidoscopico dei Racconti romani.
E Morante, nata a Testaccio ma formatasi sulla via Nomentana, fece uno dei punti di forza del capolavoro La storia la descrizione puntuale delle singolarità irriducibili dei quartiere popolari della Roma dilaniata dalla guerra. Una descrizione antropologica, a volte addirittura etnologica, che soltanto una romana sarebbe stata in grado di attuare.
E Albinati, mio connazionale, che sa bene quale siano le peculiarità della nostra nazione comune, nella Scuola cattolica esclama: “Quartiere Trieste, tomba del coraggio, prigione dalle pareti trasparenti, culla e declino della civiltà! (…) Sono uscito di casa (…) alla ricerca di chissà quale novità, quando la tua essenza di quartiere è di non presentarne mai”.

Mio padre nacque a via Po. Tornato all'ovile, non se ne volle staccare più.
Mia madre, nata a Trastevere e formatasi a via di Panico, si sente tuttora un'esule.