“Le variabili che
regolano la vita, anche la più programmata, sono sempre in agguato:
sono atomi che tentiamo di addomesticare, per tenerli sotto
controllo. Noi, piccoli uomini ignari, atomi vaganti noi stessi, ci
illudiamo di dominare il mondo, la natura, i destini nostri e altrui.
Invece gli atomi che ci ruotano attorno vivono di vita propria,
cozzano tra loro e con noi, una spinta casuale li sposta, veloci o
lentissimi; quando incrociano la nostra vita il certo diventa
impossibile, l'irrealizzabile diviene certo, quanto costruito con
fatica svanisce come la nebbia del mattino al primo sole” (pag.47).
È in gran parte il caso
a determinare il corso delle singole esistenze. Il successo o il
fallimento non sono soltanto deterministicamente figli di un
fantomatico merito, ma derivano soprattutto da varianti irrazionali,
da mere combinazioni imprevedibili che distruggono qualsiasi certezza
granitica per affondarla nel pantano dell'insicurezza. Come reagire
se la propria vita è sconvolta da cambiamenti radicali, da atomi
impazziti che demoliscono la fragile costruzione di un fittizio
equilibrio interiore ed esteriore, da schegge inattese che fracassano
il caldo nido degli affetti illusoriamente immutabili?
Non credo che Maria
Letizia Putti, nel bel romanzo Lo scrittore non ha fame
(Graphofeel, 2016), intenda proporre una risposta univoca a tale
interrogativo angosciante. Anzi, con sottile ironia Putti evade dalle
brutture della realtà, dalle meschinità che deturpano i rapporti
tra gli uomini, dai malesseri familiari che creano spesso le più
terribili sofferenze mentali, dalle basse invidie che si celano
talvolta nei rapporti di amicizia, per soffermarsi su un mondo
civilmente ideale e indicare una possibile via di fuga dal caos,
dalla fragilità dell'essere, dal tempo che trascina via qualsiasi
ombra di apparente appagamento. Una possibile via di fuga a sua volta utopica,
transitoria – come si evince nella pagina finale del libro –,
dato che gli atomi continuano in ogni caso a cozzare tra loro e a
sconvolgere irrazionalmente i punti fermi delle gracili convinzioni
individuali.
Andrea Visconti, il
pacifico protagonista, solo dopo la traumatica esperienza del
successo, della notorietà alienante che lo strappa dalla vita
tranquilla di marito e di padre, capisce il valore delle piccole
cose, degli affetti familiari, delle complicità con gli amici. In
altri termini, è proprio il trionfo mediatico, che lo sradica
dell'angulus oraziano, ad aiutarlo a cogliere il valore della
cosiddetta normalità. Sconvolto, compie, anzi cerca di compiere un
paradossale ritorno verso l'anonimato appagante ma ormai perso per
sempre.
Su questo sottofondo
epicureo si dipana un romanzo gradevole, ben scritto, dall'immediata
decifrabilità, apparentemente ottimistico ma in realtà tormentato,
cosciente dell'inconsistenza di ogni sentore di felicità statica.
Meglio ridere che disperarsi, suggerisce Putti. E lo fa con una
scanzonata sensibilità femminile e con un ritmo narrativo avvolgente
e convincente.