domenica 13 novembre 2016

Pasolini. Ragazzo a vita.




Era dal 1978, dalla Vita di Pasolini di Enzo Siciliano, che non veniva pubblicato un libro così intenso sul grande artista friulano. Ma Renzo Paris va oltre la semplice biografia. Rivive il tempo andato e lo ingloba nella dimensione del proprio flusso di ricordi per proiettarlo, inevitabilmente, in un presente volgare, privo di qualsiasi stimolo intellettuale. Così Pasolini, e gli altri grandi artisti della Roma del secondo Novecento, diventano quasi delle immagini emblematiche, se non addirittura mitiche, di un passato glorioso del quale Paris intende essere non solo il testimone-cantore, ma anche uno degli ultimi attori, una sorta di portabandiera nostalgico di una nazione drammaticamente svanita.

Ma vediamo nel dettaglio alcuni degli aspetti encomiabili di Pasolini. Ragazzo a vita (2015, Elliot Edizioni).

1) Lo stile asciutto ma incalzante, a volte perfino evocativo, grazie a una sintassi paratattica che toglie qualsiasi zona d'ombra al testo, senza mettere in rilievo narcisisticamente le singole parole. Negli ultimi anni, ahimè, è ricomparsa la passione per una scrittura involuta, talora corredata da anacoluti, nella quale il discorso è continuamente interrotto da una serie di parentetiche che rende quasi ermetiche delle riflessioni spesso banali. Paris si rivela immune da questa moda subdola e fonda la sua prosa su un'immediata e onesta decifrabilità,

2) La realizzazione di un'autofiction non intrappolata nel compiacimento autorenferenziale. Il filo conduttore del libro non si riscontra tanto nel divenire dell'autore nel tempo, quanto piuttosto nella sua memoria che si confronta con il tempo e si stupisce. Una memoria che deve fare i conti con le ombre sfocate di amici scomparsi, di luoghi stravolti nell'era del conformismo dilagante, di ideali frantumati dalla globalizzazione, di costumi sia positivi che negativi appiattiti da una tecnocrazia apparentemente democratica, in realtà oppressiva. “La tabula rasa dei primi quindici anni del Duemila” scrive Paris. Una tabula rasa rappresentata a volte in maniera volutamente iperbolica, sia dal punto di vista antropologico che da quello sociologico, tramite i ragazzi ipnotizzati dagli smartphone, dalle ragazze che, emulando degli squallidi fatti di cronaca, offrono la loro intimità per un misero guadagno rapido, dai pensionati, ormai privi di ideali, costretti a vivere poveramente la loro vecchiaia mantenendo i figli disoccupati.

3) La descrizione di Roma, del suo spirito sostanzialmente fascista pur nelle sue contraddizioni, della sua lenta metamorfosi da una città classista ma vitale, a una città in graduale perdita d'identità dominata, per di più, da una volgare mentalità piccolo borghese, da una popolazione priva di ogni rapporto con la cultura e già in pieno processo di assimilazione con il contemporaneo livellamento postideologico.

4) La rappresentazione, per così dire, obiettiva dell'uomo Pasolini, il punto fondamentale del libro. Paris evita ogni esaltazione agiografica dell'intellettuale-martire da qualche anno in voga, e mostra un uomo nella sua concretezza, con i suoi vizi e le sue virtù, un uomo tormentato dalla sua stessa complessità, oserei dire dalla sua stessa problematicità testarda.

.5) Gli acuti ritratti di alcuni grandi personaggi che furono sodali di Pasolini. Come Alberto Moravia, scrittore razionale dalla notevole disponibilità umana. Come Laura Betti, la “madre fallica”, attrice-intellettuale-cuoca dal carattere ostinato e dirompente. Come il malinconico Dario Bellezza, uno dei più grandi poeti della seconda metà del secolo scorso purtroppo quasi dimenticato.






venerdì 14 ottobre 2016

Palinodia



 
 
Mi scuso. Capita di sbagliare. Ma il pubblico riconoscimento dei propri errori talvolta ne attenua la gravità.

Ero rimasto perplesso davanti al conferimento del Nobel per la Letteratura a Bob Dylan perché pensavo spettasse a un letterato e non a un cantante, perché – estrapolati dall'accompagnamento musicale (mi pareva eccessivo parlare di musica) – i versi di Dylan mi sembravano piuttosto banali. Lo confesso, ero troppo obnubilato dalle poesie di Montale e di Eliot per apprezzare i testi del magnifico menestrello del Minnesota. Sono stato perfino così arrogante da ritenere di trovarmi davanti a un ennesimo caso di adeguamento all'effimera inconsistenza di un'epoca in cui l'essere noto vale più dell'essere, per così dire, bravo. Addirittura mi sono spinto ad affermare che si trattava di una sconfitta della letteratura – sancita da qualche accademico incapace – sostituita da forme artistiche più semplici, terra terra, quelle forme artistiche osannate da un pubblico che non ha tempo da perdere per dedicarsi a letture complesse o ad ascolti più elaborati, da un pubblico che cerca nell'arte facili scappatoie dal piattume del vivere quotidiano senza, tuttavia, elaborare delle reali alternative artistiche.

Capita nei periodi culturalmente deboli, mi dicevo. Capita che si deteriori la cultura con l'elogio dell'ovvio, che si confonda la cultura con l'impegno civile, che si affondi la cultura nel pantano delle subculture, che si umili la cultura andando incontro all'alterigia dei tifosi delle celebrità mediatiche.

Ebbene sì, lo riconosco, sono stato un presuntuoso inavveduto.

La “profonda filosofia dei giornali” mi ha aiutato a farmi cambiare parere.

Ho letto da una parte che tutti coloro che si ponevano in una posizione critica verso tale Nobel erano soltanto degli scrittori falliti che strillavano, in un'altra parte si affermava che a dare voce alla loro incredulità fosse l'invidia, in un'altra ancora l'ignoranza, L'ignoranza? Sì, perché tali scrittori falliti non sapevano che le liriche di Alceo fossero cantate, che Bernart de Ventadorn scrivesse anche la musica delle sue canzoni, che Metastasio fosse anche un musicista. In un primo momento ho trovato quest'ultima argomentazione ridicola, come se Alceo, Bernart e Metastasio siano rimasti nella storia della letteratura non per la bellezza dei versi ma per la musica. E ho confrontato i loro testi con quelli di Bob Dylan. Ma poi mi sono ricreduto, non appena ho dato un'occhiata alle parole illuminanti di intellettuali del calibro di Ernesto Assante e di Gino Castaldo, non appena ho ascoltato i telegiornali della Rai affermare che negli Stati Uniti si sarebbero lamentati per la tardività di tale riconoscimento (chi si sarebbe lamentato però non è stato detto). E mi sono unito al coro di tutti quelli che hanno maledetto Irvine Welsh che ha osato scrivere: “this” prize “is an ill conceived nostalgia award wrenched from the rancid prostates of senile, gibbering hippies”. E ho finalmente compreso che non sia vero che il pensiero massificato odierno non solo crei grottesche distorsioni ma anche livelli le differenze in un amalgama deforme che bisogna per forza considerare un coacervo di capolavori indiscutibili. Chi non si adegua, è soltanto un fallito invidioso che strilla. Un passatista che non coglie la grandezza artistica della sublimazione del nulla.

domenica 24 luglio 2016

Il feticcio della comprensione esaustiva e le probabili intenzioni maggiori individuate tramite la quantità e il contesto



 
Se l’uomo avesse le stesse caratteristiche che garantiscono il funzionamento di un computer e gli permettono di produrre linguaggi compiuti, anche per gli omnia di ogni autore dedito soprattutto alle speculazioni teoretiche non si potrebbe far altro che constatare un'indubitabile sostanza concreta senza ricercare delle contraddizioni impossibili.

Il risultato della collaborazione tra l'hardware e il software produce, si sa, una realtà pancronica, estranea a stridori o a felicitazioni.

Il passare del tempo, la presenza di diversi destinatari e di differenti intenzioni si configurano, per una realtà simile, come dei problemi vacui sia per le conclusioni generali che per le applicazioni informatiche progettate come tali.

Ma fuori da questa realtà artificiale, le tre costanti appena citate di ogni forma di comunicazione umana (tempo, destinatari e intenzioni) non possono, tuttavia, essere seriamente catalogate come categorie assolute, né tanto meno possono essere distinte.

Parrebbe pertanto inconcludente proporre un'interpretazione non arbitraria non solo del discorso altrui ma soprattutto dello svolgimento diacronico del discorso altrui in virtù dell'essenziale condizione di alterità anche verso sé stesso di ogni essere vivente.

Tuttavia si potrebbe limare ma non demolire tale inconcludenza se si ricorresse a due criteri cardini, mutuati dalla filologia: quelli della probabilità e della quantità.

Già tali criteri elementari condurrebbero a una non condivisione verso la comprensione esaustiva e, per entrare nello specifico, a una non accettazione verso la staticità funzionale delle figure retoriche e, per entrare nell’iconoclastia, a una serrata critica contro le drastiche suddivisioni tradizionali fra argomentazioni e dimostrazioni.

Parrebbe arduo essere d’accordo con il presupposto dell’esistenza di singole volontà specifiche. Ancora più ostico sarebbe dare credito al mito della realtà di piccole volontà autonome, pure.

In altri termini, un discorso giudiziario non è solo una dimostrazione, un discorso deliberativo o uno epidittico non sono soltanto delle argomentazioni.

Per non rimanere bloccati nel nulla, si potrebbero però acquisire, ma solo come mere e imperfette categorie ermeneutiche, la dimostrazione (o speculazione teoretica) e l’argomentazione, aggiungendo, semmai, una terza, la constatazione, forse la meno legata al fattore tempo.

Questa suddivisione sarebbe operata solo per economia esegetica perché si rivelerebbe basata soltanto sulle probabili intenzioni maggiori e, di conseguenza, sui più o meno presumibili interlocutori.

Vale a dire, una volta individuate la probabile compatibilità parziale delle singole frasi o dei singoli discorsi con una delle tre categorie guida, tali discorsi o tali frasi prima si separerebbero, a seconda delle presunte intenzioni maggiori identificate, e quindi si raggrupperebbero nelle categorie assegnate.

Per comodità, si potrebbero suddividere diacronicamente i vari elementi dinamici delle dimostrazioni, delle argomentazioni e delle constatazioni e soffermarsi soprattutto sugli stati (nell’accezione di Saussure) delle dimostrazioni (in ogni dimostrazione è sottintesa la presenza dell’uditorio universale) e solo citare l’esistenza di eventuali constatazioni (per le quali, a rigore, non si può parlare di stati), specialmente quando pare implicita la sussistenza di qualche motivazione inconscia.

Tuttavia se la nozione stessa di stato non può essere che approssimativa, tanto più pare approssimativa la creazione di una sintesi finale con l’equiparazione e il confronto tra i vari stati per cogliere gli elementi costitutivi, le linee direttive di qualsiasi categoria.

La soluzione meno arbitraria comporterebbe l’astenersi da qualunque ambiziosa sintesi pancronica e il limitarsi a parcellizzate analisi idiosincroniche.

Il feticcio della sintesi potrebbe essere parzialmente soddisfatto solo seguendo i criteri della probabilità e della quantità, tramite l’acquisizione di frasi o di discorsi compatibili con una determinata categoria e caratterizzati dal loro statuto di ri-uso.

Ma si dovrebbe avere l’accortezza di parlare solamente di tendenza maggioritaria.

lunedì 11 luglio 2016

La truffa come una delle belle arti




Perché gli eroi, per così dire, borghesi di Boccaccio, cioè Mastro Simone, Bruno e Buffalmacco ordiscono una serie di scherzi ben riusciti allo stupido Calandrino? Per dimostrare di essere degli artisti allo stato puro. Non cercano un guadagno. Basta loro la consapevolezza di sapere padroneggiare il mondo e gli altri tramite l'intelligenza, tramite la capacità labirintica e illusionistica della parola, tramite il tempismo più perfetto.
Perché i maghi islamici di Ariosto (Atlante, Alcina) riescono a irretire così facilmente gli uomini? Fondamentalmente perché colgono la loro sciocca disponibilità a farsi imbrogliare.
Perché Tasso tradisce la propria partecipazione emotiva quando descrive gli amori tra Armida e Rinaldo interrotti dal moralismo cristiano di Carlo e Ubaldo? Perché sa che i due amanti, sebbene nel peccato, comunque erano felici.

Credo che alla base del notevole romanzo La truffa come una delle belle arti di Gianluca Barbera (Aliberti compagnia editoriale, pp.220) ci sia una splendida fusione tra questi aspetti profondi della nostra letteratura.
Che cosa sono i truffatori se non dei geniali manipolatori della realtà che, fondandosi sulla dabbenaggine altrui, raggiungono momenti più o meno lunghi di felicità che oltrepassano ogni bieco moralismo?
E dice bene Barbera quando afferma che spesso il truffato sia anche un dozzinale lestofante fallito pieno di livore e di invidia.

Calandrino non è solo un cretino, ma anche un potenziale ladro che pesta a sangue la moglie Tessa. Sacripante è uno stupratore mancato, ben lontano dall'amore paterno di Atlante per Ruggiero. Carlo e Ubaldo, alienati dal fanatismo religioso, non hanno mai desiderato di raggiungere una reale felicità terrena, nella loro ottusità non capiscono nemmeno che una felicità basata sugli inganni sia in ogni caso una felicità reale, una felicità a tutto tondo.

Ma il punto più alto del romanzo arriva quasi all'inizio, nella descrizione del viaggio di re Ferdinando verso la falsa sirena. Barbera ha scritto uno dei capitoli più esilaranti della narrativa italiana del XXI secolo, in cui fa rivivere icasticamente il fascino dei viaggi del “Satyricon”, la comicità anarchica dei romanzi picareschi mediata dall'ironia postmoderna di Saramago del “Memoriale del convento” che, a sua volta, presenta dei tratti di rielaborazione dei romanzi picareschi.
E, a proposito di cultura lusitana, si scorgono nel libro anche delle convergenze con Pessoa. Convergenze forse dovute a degli aspetti comuni tra il suo pensiero e quello di Cioran.

L'arte come una delle belle arti è un romanzo solido, che non annoia mai e anzi fa riflettere e distrugge qualsiasi granitica certezza etica.
E personaggi come Pepè e Carl difficilmente si dimenticano. Il che non è poco per uno scrittore.

Paolo Marati