L’indignazione
urlata nelle piazze si profila come un mero, e molesto, riconoscimento d’impotenza;
comporta più rabbia per se stessi e per la propria incapacità di agire che
verso la causa o l’oggetto che l’ha provocata.
L’invettiva
può determinare un notevole grado di compiacimento, può definirsi liberatoria
ma lascia le radici di un’inettitudine virtuosistica che non oltrepassa la
stilizzazione di un albero dipinto.
Il
j’accuse, sebbene possegga il vantaggio dell’analisi lucida e
dettagliata, si deforma spesso nell’apologia o, meglio, nella
spettacolarizzazione dell’io ipertrofico dello scrivente.
Come,
dunque, si potrebbe trattare al meglio un avvenimento che provoca un disgusto
razionale, senza cadere nei lacci del pamphlet o del retoricume o
dell’ingiuria, ed essere incisivi?
Forse
con il filtro della conversazione pacata ma analitica tra personaggi distanti
dall’io che scrive?
Diderot
e James, ecco le fonti formali che Fabrizio Ottaviani confessa di avere seguito
nella prefazione del denso, divertente, distruttivo La testata di
Zidane (Mattioli 1885) per sfogare con civiltà il «fastidio viscerale» per
«la mancata reazione degli italiani» davanti alla colpevolizzazione della parte
lesa (Materazzi) e la giustificazione del colpevole (Zidane) frutto dell’«operazione
mistificatoria» operata dai francesi e, alla fine, accettata dalla Fifa che, in
un kafkiano processo a porte irrazionalmente chiuse, affibbiò la stessa
squalifica alla vittima e al carnefice.
E
la conversazione, che mantiene un nitore settecentesco, è messa finemente in
bocca a tre transalpini, Jean, Marcelle ed Annette (uno psichiatra, un
giurista, una sociologa), che vivono da anni a Roma e che palesano il vantaggio
di una partecipazione così attiva e così scissa da divenire, paradossalmente,
una terzietà.
Tuttavia,
“La testata di Zidane” oltrepassa il fatto calcistico vero e proprio –
nonostante il fastidio provocato dall’assenza del presidente della Fifa, lo svizzero
Blatter, alla premiazione degli azzurri e del doppio invito all’Eliseo del
presidente della repubblica francese, Jacques Chirac, al campione espulso, quasi a
consolarlo per l’offesa subita (Zidane in quanto algerino, è chiaro: se questo
non è razzismo!).
La
testata diventa una sorte di sineddoche di un Volksgeist italico
all’apparenza lussureggiante ma in realtà straccione; di un insensato, masochistico
auto deprezzamento di una nazione che cela, nel 2006 come nel 2020, un
incomprensibile senso d’inferiorità dietro alla maschera di carta velina di un orgoglio
nazionale di accatto; di un patriottismo riconosciuto all’istante evanescente
ma scambiato, forse con spirito capzioso, per post fascismo; di un’autostima in
frantumi da parte di un popolo che si esprime tramite la quarta lingua più
studiata al mondo ma che la imbastardisce con anglismi inutili e riempie ogni spazio
(coppe e magliette comprese) unicamente di scritte inglesi.
Dall’altra
parte, quella dei francesi, la testata diventa la sineddoche di un popolo che
agisce da «bambino viziato che non vuole stare alle regole, che fa delle
storie, che si tira fuori dal gioco quando sta per perdere».
Del
resto – si potrebbe aggiungere come chiosa – tre anni dopo la Francia si
qualificò, con grossolanità truffaldina, per i Mondiali del Sud Africa a discapito
dell’Irlanda grazie a un goal segnato al dodicesimo dei tempi supplementari
dello spareggio decisivo: Henry stoppò la palla con una mano, accanto alla
porta avversaria, e la passò a Gallas che la infilò in rete.
La
partita non fu ripetuta. Scoppiarono diverse polemiche ma la Francia non patì
nessuna conseguenza. La Fifa, guidata sempre da Blatter, donò alla federazione
calcistica irlandese, dopo qualche mese, cinque milioni d’euro per costruire
uno stadio (un risarcimento?). Mentre a Parigi si festeggiava e a Roma si
taceva.
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