martedì 29 dicembre 2020

La casa degli uccelli


 


Scopriamo le carte: non sono un fan dei romanzi storici. O meglio, non è che io non sia un fan del genere in quanto tale. Rimango, in qualche modo, perplesso perché reputo difficile, quasi impossibile, leggere un romanzo storico senza annoiarmi, senza addirittura provare fastidio. E non intendo parlare soltanto delle produzioni recenti.

Mi spiego. Provate a prenderne in mano uno a caso – tra quelli di alto livello, s’intenda – e a sfogliarlo anche con un’attenzione superficiale, ed ecco che venite travolti dal pittoresco, dal romanzesco, da un impianto saggistico che trapela perfino nei dialoghi, dall’affresco sociale che soffoca la linearità del racconto, da personaggi privi di spessore che ripetono con monotonia la fissità del loro essere, da descrizioni minute di acconciature, di abiti, di cibi e di ambienti per niente funzionali all’intreccio, ma messi a bella posta per sottintendere lo sforzo titanico delle ricerche compiute, per conferire una patina di verosimiglianza storiografica ai caratteri e agli eventi, nella certezza della stima inevitabile da parte del lettore insipiente.

Ma tra tante ostriche indigeste, talvolta capita di coglierne una che cela una perla.

La casa degli uccelli, di Laura Bosio e Bruno Nacci (Guanda, pag. 286), è un bel libro, appassionante, dal ritmo rapido ma non convulso, degno di divenire un bestseller nonostante sia scevro dagli stolidi cliché imposti dagli editor poco coraggiosi.

Ambientato tra la primavera e l’estate del 1794, in una Parigi sconvolta dal Terrore, La casa degli uccelli riesce, per l’appunto, nel miracolo di non cadere né negli stereotipi della letteratura di genere né nello sfoggio erudito, pur partendo da un drammatico avvenimento reale.

Dentro a un palazzo in rovina – chiamato comunemente casa degli uccelli perché immerso in un giardino fornito di voliere ormai senza volatili (quelli che vi vivevano, erano stati liberati da una folla inferocita) –  gravita la più composita umanità:

Coloro che hanno il permesso di entrare e di uscire, come il barbiere Bertier, un uomo che sconcerta nel suo rivelarsi in bilico tra la solidarietà e il cinismo. Coloro che, sebbene esterni, influiscono nella casa più dei presenti, come il giudice Fouquier-Tinville – delineato finemente nel suo caos interiore che amalgama integrità,  malinconia e ambivalenza – la cui ombra cala e avvolge minacciosa in ogni dove e in ogni pensiero di tutta Parigi, casa compresa. Coloro che si rivelano i reclusi solventi, i prigionieri che non desiderano la libertà (come alcuni uccelli che nel prologo si dimostrano riluttanti a lasciare le gabbie), i segregati all’apparenza soddisfatti della propria detenzione: piccoli nobili, alti borghesi, ufficiali in pensione, lestofanti di successo, tutti compromessi con l’Ancien Régime, tutti «ciechi e sordi a tutto se non a quello che volevano vedere e sentire» (p.262). Coloro, infine, che si ritrovano rinchiusi per fedeltà talora imposta, i servi, costretti fino all’ultimo a condividere la sorte dolorosa dei loro padroni.

Una varia umanità, insomma, brulica in questo romanzo corale. Un’umanità dolente, agitata, che si abbandona al presente reiterando il passato; che riproduce gli ormai anacronistici vanti superbi e i vezzi spocchiosi seppure ormai privi di ogni riconoscimento sociale; che si inebria in un libertinismo ormai degradato nel vuoto di una falsa inconsapevolezza; che itera con poca convinzione il divertimento mondano più fatuo; che amplifica la vacuità del pettegolezzo per difendersi dall’irrazionale che schiaccia le desolanti convenzioni secolari., per forgiarsi uno scudo friabile dinnanzi all’incombere di un destino tragico,

Una varia umanità, in altri termini, che si finge drogata, ma che in fondo è fin troppo lucida della propria precarietà, dal più coinvolto al più innocente.

E noi lettori non possiamo fare altro che seguire ma non immedesimarci (gran pregio!) con le donne smarrite e gli uomini perduti  che si muovono come traballanti marionette grottesche (come le parrucche della falsa baronessa Manneville), marionette barcollanti prive di coordinate, ma che mantengono l’espressione di sempre, sebbene il colore si sia sbiadito, sebbene siano in procinto di essere arse.

Noi lettori quasi ci trasformiamo in un pubblico teatrale che segue, con attenzione e freddezza, i mal dissimulati tormenti di donne disperate e di uomini sbigottiti, ma non redenti, anzi astiosi quanto mai, privi di qualsiasi vestigia di solidarietà.

Forse potremmo scorgere una donna e un ragazzo puri. Charlotte e Dominique, gli unici in grado di separare il passato e il presente dal futuro, per quanto tale futuro si riveli fragilmente eventuale.

Tuttavia, la ricerca della non complicità, del disinteresse nobilitante, della purezza, della bontà in un mondo di una desolata tristizia rimane a volte un’illusione appagante per non affrontare con schiettezza brutale la realtà.

lunedì 9 marzo 2020

Miss Rosselli







Come evitare, in una biografia, il prevedibile svolgersi cronologico di avvenimenti e di considerazioni che puntano o a un’oggettività ambiziosa o a una soggettività filologicamente, sì, impeccabile, ma che si appoggia, inevitabilmente, su un’illusione deterministica, quasi fosse un platano senza radici tratteggiato con perizia intorpidita in un acquerello da sala d’aspetto?

Renzo Paris lo sa, ne è una riprova Miss Rosselli (Neri Pozza). Sa della scarsa importanza  delle descrizioni fattuali e della necessità dello sgretolamento dei canoni, dell’esigenza dell’evocazione, compromessa dall’intrusione dell’io, che, per forza di cose, mostra una sorta di friabilità solida sovrapponendosi a ogni scontata intenzionalità narrativa.

E così Amelia Rosselli non subisce la distorsione di una volontà narcisistica che, nascondendosi, intende ridurre nel già letto il suo essere dolente, e la sua lacerazione diuturna non viene segmentata ottusamente (o furbescamente) in una serie di aneddoti, di lodi, di invettive, di pietismi, di riconoscimenti di vizi e di virtù.

La prospettiva rimane costantemente traballante, in quanto trema la mano che sorregge la telecamera dei ricordi. Una telecamera che a volte sfuma, a volte si perde nella nebbia di una memoria evanescente, a volte irrigidisce i particolari come fossero dei monoliti, altre volte li distorce con l’onesta di chi confessa di soffrire, appunto, di tremori gradevoli. E il centro si sposta sulla voce narrante (un tempo si sarebbe detto sul locutario) che finge di derivare dalle tensioni di un personaggio reale pur lanciando, forse per onestà, continui messaggi non ermetici per rendere più fruibili le reali intenzioni rappresentative.

Il personaggio creato, Miss Rosselli, si delinea, in tal modo, rientrando in un intreccio ben costruito, incorniciato, per di più, da due fragili episodi pseudo autobiografici, che quasi sottintendono la non erroneità di qualsiasi sentore di rievocazione che vada oltre la razionalità, la non infondatezza di ogni definizione-visione della statua paradossale di una divinità ambigua scolpita, in maniera indelebile, su un marmo mentale (con le sue risate brutali, gli eccessi della sua malattia), in costante rapporto-scontro con degli alter ego (le donne di Paris, gli amorastri) che suggeriscono innumerevoli traverse di una strada dal cemento privo di crepe.

L’ondeggiare continuo tra il passato e il presente, che s’infrange nei marosi delle intermittences du coeur, talora si fortifica in virtù di testimonianze più o meno credibili di artisti partecipi che suggeriscono, incoraggiano, talora insultano, ma in ogni modo arricchiscono il libero avanzare delle illuminazioni involontarie con nuances di matrice giallistica senza inficiare la nostalgia di fondo, il rammarico malinconico che invade perfino le parti più saggistiche di un libro difficilmente dimenticabile.


martedì 7 gennaio 2020

La testata di Zidane






L’indignazione urlata nelle piazze si profila come un mero, e molesto, riconoscimento d’impotenza; comporta più rabbia per se stessi e per la propria incapacità di agire che verso la causa o l’oggetto che l’ha provocata.
L’invettiva può determinare un notevole grado di compiacimento, può definirsi liberatoria ma lascia le radici di un’inettitudine virtuosistica che non oltrepassa la stilizzazione di un albero dipinto.
Il j’accuse, sebbene possegga il vantaggio dell’analisi lucida e dettagliata, si deforma spesso nell’apologia o, meglio, nella spettacolarizzazione dell’io ipertrofico dello scrivente.

Come, dunque, si potrebbe trattare al meglio un avvenimento che provoca un disgusto razionale, senza cadere nei lacci del pamphlet o del retoricume o dell’ingiuria, ed essere incisivi?
Forse con il filtro della conversazione pacata ma analitica tra personaggi distanti dall’io che scrive?

Diderot e James, ecco le fonti formali che Fabrizio Ottaviani confessa di avere seguito nella prefazione del denso, divertente, distruttivo La testata di Zidane (Mattioli 1885) per sfogare con civiltà il «fastidio viscerale» per «la mancata reazione degli italiani» davanti alla colpevolizzazione della parte lesa (Materazzi) e la giustificazione del colpevole (Zidane) frutto dell’«operazione mistificatoria» operata dai francesi e, alla fine, accettata dalla Fifa che, in un kafkiano processo a porte irrazionalmente chiuse, affibbiò la stessa squalifica alla vittima e al carnefice.
E la conversazione, che mantiene un nitore settecentesco, è messa finemente in bocca a tre transalpini, Jean, Marcelle ed Annette (uno psichiatra, un giurista, una sociologa), che vivono da anni a Roma e che palesano il vantaggio di una partecipazione così attiva e così scissa da divenire, paradossalmente, una terzietà.

Tuttavia, “La testata di Zidane” oltrepassa il fatto calcistico vero e proprio – nonostante il fastidio provocato dall’assenza del presidente della Fifa, lo svizzero Blatter, alla premiazione degli azzurri e del doppio invito all’Eliseo del presidente della repubblica francese, Jacques Chirac, al campione espulso, quasi a consolarlo per l’offesa subita (Zidane in quanto algerino, è chiaro: se questo non è razzismo!).

La testata diventa una sorte di sineddoche di un Volksgeist italico all’apparenza lussureggiante ma in realtà straccione; di un insensato, masochistico auto deprezzamento di una nazione che cela, nel 2006 come nel 2020, un incomprensibile senso d’inferiorità dietro alla maschera di carta velina di un orgoglio nazionale di accatto; di un patriottismo riconosciuto all’istante evanescente ma scambiato, forse con spirito capzioso, per post fascismo; di un’autostima in frantumi da parte di un popolo che si esprime tramite la quarta lingua più studiata al mondo ma che la imbastardisce con anglismi inutili e riempie ogni spazio (coppe e magliette comprese) unicamente di scritte inglesi.

Dall’altra parte, quella dei francesi, la testata diventa la sineddoche di un popolo che agisce da «bambino viziato che non vuole stare alle regole, che fa delle storie, che si tira fuori dal gioco quando sta per perdere».

Del resto – si potrebbe aggiungere come chiosa – tre anni dopo la Francia si qualificò, con grossolanità truffaldina, per i Mondiali del Sud Africa a discapito dell’Irlanda grazie a un goal segnato al dodicesimo dei tempi supplementari dello spareggio decisivo: Henry stoppò la palla con una mano, accanto alla porta avversaria, e la passò a Gallas che la infilò in rete.
La partita non fu ripetuta. Scoppiarono diverse polemiche ma la Francia non patì nessuna conseguenza. La Fifa, guidata sempre da Blatter, donò alla federazione calcistica irlandese, dopo qualche mese, cinque milioni d’euro per costruire uno stadio (un risarcimento?). Mentre a Parigi si festeggiava e a Roma si taceva.

lunedì 15 luglio 2019

Cetti Curfino





L’oppressione della solitudine, l’impossibilità completa di comunicare l’isolamento esistenziale, il tormento che lacera l’animo senza affinarlo, la coscienza della velleità di sperare in un riscatto impalpabile, lo scorgere il futuro appiattito su un presente vuoto perfino di parvenze di stimoli vitali. Ecco le reali lacerazioni che trapelano sottili durante la lettura di Cetti Curfino (La nave di Teseo, pp.254).

«Qual è il valore del tempo che passa, quando ogni giorno si riduce alla parodia di quello che si è appena concluso?» (p.70) si chiede Andrea Coriano, il protagonista, oppresso da una realtà grigia da cui potrebbe evadere solo mettendo a repentaglio la vita, opzione tuttavia impossibile per un abulico come lui che sente già in sé, e da anni, germogliato il seme della rinuncia; che percepisce saldamente solidificate le radici di un lasciarsi vegetare troppo simile, purtroppo, a un nascondersi vigliacco.

Andrea sa bene che la sua è una di quelle tante «esistenze vuote come uova di Pasqua senza sorpresa». Che senso avrebbe, pertanto, scartare il rivestimento, rompere l’ovale di cioccolato se poi dentro non si trova niente se non uno specchio mentale del vuoto della propria inutilità?

Chi è Cetti Curfino? Chi è questa quarantenne omicida, affascinante per quanto incolta e, in apparenza, scontrosa? Perché tale detenuta si confonde e si ingloba per lui con il ricordo dell’ex fidanzata, la risoluta Elsa? Perché Andrea scorge in Cetti non solo le stigmate della subordinazione femminile di sempre (amplificate dalla condizione di emarginata siciliana) ma anche un carattere archetipico che gli sfugge tormentandolo?

Rispondere comporterebbe svelare l’origine del malessere del protagonista, la tragedia di un’assenza totale su cui, dal primo vagito in poi, lo ha condotto a brancolare come se si trovasse nel mezzo di una perpetua nebbia cinerea e a non scorgere il sole risplendere sopra le nuvole d’autunno. Dare indizi significherebbe offrire un’interpretazione intempestiva sulle contraddizioni di un trentenne che – per sfogare la sofferenza del sentirsi un inetto rinchiuso in un’asfittica realtà di una quotidianità superflua – si abbandona al cibo, accettando senza provare fastidio la conseguente pinguedine, quasi nella certezza inconscia che l’essere sovrappeso renda paradossalmente invisibili, forse difesi dallo scorrere tormentato di una vita deludente.

Nonostante la dimensione in buona sostanza drammatica del protagonista, Cetti Curfino è un romanzo scorrevole, pieno d’imprevisti, che ha il gran pregio di mettere il lettore di fronte alla consapevolezza della fragilità di alcune certezze ritenute superficialmente solide, di immetterlo in una storia privata dalle valenze universali. Tutto ciò grazie anche alla scrittura scorrevole di Massimo Maugeri e grazie alla sua notevole capacità di passare dal dramma alla commedia senza mai rallentare il ritmo di un romanzo decisamente ben riuscito.

venerdì 20 aprile 2018

Si spengono le stelle






La vecchia nutrice indiana, Nagi, spiega, a inizio libro, a una Susannah ancora bambina, che tutti gli esseri viventi e apparentemente non viventi, l'aria e gli astri compresi, non sono altro che l'emanazione del Wakantanka, di quell'impalpabile grande mistero immanente che non distingue ma unisce, che penetra il tutto radicandosi in modo panteistico nell'universo. Ogni singola esistenza non sarebbe altro che una parte costitutiva di un'armonia incorporante che, potenzialmente, dovrebbe collegare qualsiasi aspetto visibile e no in una pacifica convivenza naturale.

Il dramma della cultura occidentale risalirebbe, secondo Raimondi, nel concetto di individualità. O meglio, il singolo individuo, già dall’infanzia, scoprirebbe in sé una sostanziale evanescenza che produce disorientamento ma, forse per debolezza, preferisce accettare l’abbaglio solipsistico che lo conduce al rifiuto netto verso la separazione del proprio personaggio fittizio – rinchiuso in un ruolo artefatto di un'illusoria realtà da fiction – dall'unitaria essenza universale.

Il terrore del buio non illuminato dal lanternino personale – per ricollegarsi al Pirandello del Fu Mattia Pascal – per Raimondi non comporterebbe lo smarrimento dell'identità, ma la completa assenza di una reale empatia verso gli altri, al rinchiudersi a riccio nelle proprie labili convinzioni e nelle proprie contraddizioni moleste. Si tratterebbe, insomma, di una radicale incapacità d’immedesimazione che si degrada in una rabbia verso il prossimo motivata paradossalmente dall'incomprensione verso se stessi. Una rabbia che, a sua volta, si tradurrebbe in un conformismo spietato, in una perenne trasmutazione dell’io sociale in una sorta di polveriera pronta ad esplodere e a dilaniare chi non è intrappolato nell'inganno esistenziale, chi si allontana dalle regole delle convenzioni irrazionali su cui si fonderebbe l'inquietante paura di ogni comunità che difende furiosamente la propria identità fasulla.

Il disadattato appagato, l'eccentrico fino al paradosso, la ninfomane per scelta, il mistico di una religione non riconosciuta, il rivoluzionario culturale in tempi del pensiero unico, tutti coloro che sono derisi e offesi perché rappresentano la libertà allo stato puro, si rivelerebbero anche l'oggetto dell'odio più viscerale da parte di chi coglie, seppure inconsciamente, la loro forza primigenia, il loro stretto legame, per così dire, con il Wakantanka, e pertanto li teme in quanto sbigottito dalla prospettiva di un possibile sfaldamento delle effimere fondamenta sui cui si poggiano le varie certezze non dissonanti della propria comunità.
  
Ormai, nella società occidentale del Ventunesimo secolo, la crudeltà della maggioranza impaurita si attua tramite varie forme di emarginazione più o meno atroci, ma un tempo – come nella York di fine Seicento descritta dall’autore con la perizia dello storico erudito – si manifestava mediante delle brutalità ben più cruente che conducevano all'ebbrezza dell'efferato assassinio pubblico, vale a dire a dei macabri riti simbolici finalizzati alla liberazione collettiva dalle scorie del dubbio, dal terrore di scorgere delle prospettive di vita più libere, sì, ma anche meno consolatorie.

Su questo piano di furente pessimismo si snoda il bel romanzo di Matteo Raimondi, Si spengono le stelle (Mondadori, 2018), che mescola sapientemente vari generi (thriller, romanzo storico, noir) per narrare una storia i cui personaggi, pur nella loro costruzione plastica, si rivelano granitici, apparentemente delineati in maniera manichea, in realtà in bilico tra una dannazione e una redenzione non trascendente ma del tutto personale, immersi, come sono, in una scrittura mitopoietica che li rende delle fragili ma potenti immagini inquietanti scalfite, tuttavia, su una roccia friabile che li proietta al di là della loro breve contingenza per renderli transitoriamente atemporali.

Tra i poli apparentemente positivi e negativi dell'adolescente Susannah, incarnazione ambigua di una libertà assoluta ma forse anche genetica, e del reverendo Randall, antieroe spietato che si arrovella, nondimeno, nel calvario delle proprie aporie, ruotano dei personaggi tormentati da aspirazioni e debolezze, in perpetuo movimento ma, al contempo, paralizzati da un orizzonte allucinato che vieta loro di immaginare qualsiasi forma di fuga reale finché, come suggerisce il titolo che richiama Eliot, le stelle, anche loro parti integranti del Wakantanka, si spengono, ma soltanto per un personaggio, il più forte, il più consapevole, nonostante l'esperienza del dolore e della conseguente solitudine, nonostante la scoperta definitiva dell'inconsistenza di tutto ciò che si scambia per reale, di tutto ciò che si crede illusoriamente distinto.

domenica 10 dicembre 2017

Il continente Roma






Quando avevo tre anni, mi trasferii da Monteverde Vecchio al quartiere Trieste.
Mia nonna acquistò una farmacia e una casa a piazza Crati. Due delle tre figlie, fra cui mia madre, la seguirono. E io mi ritrovai a crescere da triestino.
Ho trascorso un'infanzia misantropica, un'adolescenza problematica e un post adolescenza saccente tra la borghesia perbenista del mio nuovo quartiere che, sotto a una facciata di una esibita civiltà consolidata, celava l'astio del risentimento sociale, la certezza granitica di un'identità nei fatti friabile, il terrore dell'irruzione violenta del diverso, il disprezzo nei confronti di ogni prospettiva palingenetica. Prospettiva palingenetica, peraltro, disdegnata perfino da me che, da bravo borghese, detestavo la mia classe sociale ma non coglievo dei differenti orizzonti esistenziali.
Finita l'università, giunse la decisione di allontanarmi da me stesso e di spostarmi a Prati, di fuggire, in altri termini, dalla soffocante identificazione con un esterno interiorizzato verso la rassicurante diversità di un quartiere altrettanto borghese.
Per tre anni mi sentii un estraneo, un intruso in un ambiente troppo incompatibile, pur nelle sue analogie, per individuare una possibile integrazione futura. E tornai indietro. Tornai al disarmonico abbraccio della mia vera città detestata: il quartiere Trieste.

Chi non è romano, anche solo di una generazione, non può capirmi, non può accorgersi delle sfumature essenziali che, al di là dello scorrere del tempo, rendono tra loro inconciliabili le diverse parti di Roma (perfino quelle che parrebbero equivalenti), non può cogliere che Roma non è una città, ma è un continente, non può comprendere che i suoi quartieri non sono delle semplici zone topografiche di un unicum urbano, ma sono delle nazioni.
Credere che questo estremo ma omogeneo frazionamento-isolamento paradossale sia scomparso, che sia confinato magari nella piccola città papalina glorificata e oltraggiata da Belli, significa o giudicare Roma attraverso gli stereotipi da Corriere della sera, o essere dei forestieri che – come scrive Cirillo – abitano o abitavano a Roma ma non ci vivono o non ci vivevano, tanto più che si rivela un'illusione ritenere possibile vivere davvero a Roma per un non romano, per uno straniero che mai riuscirà a integrarsi nell'essenza polimorfa di un continente che simula di essere una città, che dissimula la propria interiorità ostentando delle esibizionistiche viscere ributtanti, delle profonde crepe su un muro fatiscente.
Lo straniero, per forza di cose, si ferma alla scorza e generalizza mentre gli sfugge la complessità familiare di una molteplicità organica sebbene slabbrata. Il romano no, specifica, distingue a volte emettendo giudizi fasulli, a volte fingendo una disarmonia risentita che spesso si esplica in dichiarazioni d'intenti evasivi che lo stesso romano sa già che non si realizzeranno a meno che non intervenga qualche imprevisto sgradevole.

Sfogliando il bel libro antologico, curato da Silvana Cirillo, Roma punto a capo (Ponte Sisto, 2017), si scorge che il veneto Parise accostava i romani ai gatti che “stanno fermi e di solito ronfano o fanno finta di dormire,” che “ogni tanto aprono un occhio, un occhio assolutamente sveglio e si guardano intorno” per capire “se è il caso di muoversi o no, se non è il caso, richiudono l'occhio e riprendono a dormire o a fingere di dormire” (p.248). Si scopre che l'abruzzese Flaiano scriveva che Roma “non giudica , assolve, e allora chi lavora in questa città si sente un po' come un cane senza collare”. Si apprende che l'emiliano Malerba affermava che “ogni rapporto con Roma è fatalmente fondato sulla ambiguità: la si può odiare furiosamente e continuare ad amarla in segreto, di lei si può dire tutto il male e tutto il bene possibile” (p.119).
Belle frasi, argute, perfino affascinanti, ma che rivelano un completo fraintendimento, una totale mancanza della coscienza, vivissima invece nel milanese Manganelli (come nota finemente il romano Cortellessa) che nei risvolti di copertina dei suoi libri asseriva di “risiedere” a Roma, non di “viverci” (p.135).
I veri romani operano separazioni, avanzano semmai per giustapposizioni non per addizioni, possiedono la consapevolezza che la propria città sia appunto un continente che travalica l'unità, la scoprono come l'ha scoperta Moravia, “in maniera non turistica” ma “attraverso le frequentazioni della vita quotidiana” (p.153), ma a volte travisano, portando se stessi, e il proprio inestirpabile marchio territoriale, in un altrove stridente seppure appena appena.
Lo stesso Moravia, d'altro canto, trascinò la propria interiorità da via Sgambati a via dell'Oca e scorse attorno a sé un'intima proiezione della propria profonda dissonanza territoriale. Ma – da acuto osservatore di tutto ciò che era estraneo alla sua intima coscienza – non equivocò, non travisò, non accomunò le pur lievi inconciliabilità fattuali: I quartieri di Roma, perfino quelli limitrofi, presentano delle peculiarità che non sfuggono, per esempio, all'universo caleidoscopico dei Racconti romani.
E Morante, nata a Testaccio ma formatasi sulla via Nomentana, fece uno dei punti di forza del capolavoro La storia la descrizione puntuale delle singolarità irriducibili dei quartiere popolari della Roma dilaniata dalla guerra. Una descrizione antropologica, a volte addirittura etnologica, che soltanto una romana sarebbe stata in grado di attuare.
E Albinati, mio connazionale, che sa bene quale siano le peculiarità della nostra nazione comune, nella Scuola cattolica esclama: “Quartiere Trieste, tomba del coraggio, prigione dalle pareti trasparenti, culla e declino della civiltà! (…) Sono uscito di casa (…) alla ricerca di chissà quale novità, quando la tua essenza di quartiere è di non presentarne mai”.

Mio padre nacque a via Po. Tornato all'ovile, non se ne volle staccare più.
Mia madre, nata a Trastevere e formatasi a via di Panico, si sente tuttora un'esule.


venerdì 2 giugno 2017

I campi di maggio





Che cosa furono gli anni Settanta? Furono degli anni caratterizzati dall'idea che tutti avessero il diritto alla felicità oppure furono degli anni grigi, pieni di vittime e di cattivi maestri che pontificavano senza correre rischi?

Se la felicità si rispecchiava negli ideali tossici del raduno del parco Lambro, o nelle utopie terroristiche di alcuni fanatici che giustificavano i loro omicidi in virtù del bene comune – come se le vittime fossero dei meri mezzi inanimati per costruire un mondo migliore e non degli individui veri e propri con le loro speranze e le loro amarezze –, o se i maestri s'identificavano in Jean-Paul Sartre che accusava – in preda alla follia senile – le autorità italiane di uccisioni di ribelli innocenti e in Toni Negri che incitava alla rivoluzione proletaria per poi fuggire e discettare enfaticamente dalla Francia sulla situazione italiana, la risposta sembrerebbe scontata. Ma sarebbe anche troppo semplicistica. Tanto più che non terrebbe conto di ciò che fu rimosso completamente in quel decennio: il senso della vita e quello della morte.

Per non essere frainteso, Igor Patruno, in I campi di maggio (Ponte Sisto, 2015), già nella seconda pagina del suo magnifico romanzo mette in bocca a un personaggio, Riccardo, questa considerazione: «Osserva la disposizione degli oggetti in questa stanza. È il prodotto della mia visione del mondo. Quando non ci sarò più, perderà significato. La morte dissolve la posizione fisica e sentimentale che assegniamo alle cose e alle persone, perché quella posizione ha un senso solo per noi. Nessun altro potrebbe interiorizzarla allo stesso modo. Ci appartiene come individui, non è replicabile».

Già da questa breve citazione si possono rintracciare – o almeno immaginare senza poi essere smentiti – i punti cardini su cui ruota il malinconico pessimismo esistenziale di Patruno: la precarietà di ogni singola esistenza, la solitudine ontologica, l'incomunicabilità dei singoli dolori, l'assurdità dell'indifferenza verso le sorti degli estranei insita nel dna di ogni essere vivente, l'inammissibile astio e ostilità che corrode i rapporti tra gli uomini e che accresce il naturale male di vivere.

Patruno, con uno stile fluido ma al contempo elegante, crea un tunnel illuminato da luci scialbe che attraversa la narrazione e l'arricchisce di un senso profondamente diverso da quello più evidente.

Un tunnel oscuro che conduce all'amara presa di coscienza dei limiti della sensibilità umana («Viviamo inconsapevoli di quante persone conosciute, magari solo superficialmente, se ne sono andate mentre stavamo guardando la televisione, o fantasticando sulla sconosciuta seduta sulla metro. Dentro di noi continuano a vivere come esistenze sospese, come entità appese in una cella del cervello. Ma nella realtà non ci sono più», pag.242).

Un tunnel oscuro che, tuttavia, rende sempre più chiara la vanità delle occupazioni-preoccupazioni individuali, la crudeltà illogica di ogni violenta lotta politica, dal momento che la morte incombe su tutti fin dal primo vagito («Mi piaceva guardare i treni passare. (…) Di notte era uno spettacolo! (…) Intravedevo fisionomie sbiadite di passeggeri addormentati, oppure intenti a chiacchierare, a leggere, a rovistare nelle borse. (…) Ci guardavamo senza vederci davvero, percependo nient'altro che ombre. Provavo nostalgia per la fragilità di quelle vite in movimento e per la mia, in bilico su una terrazza di fronte al mondo. Mi sembrava di cogliere l'assurdità della vita. (…) Qualsiasi fosse la destinazione dei viaggiatori, qualsiasi fosse il mio destino, la vita si mostrava come un flusso sconclusionato, governato dal caso. Un treno in corsa dal quale non si poteva scendere», pag.224).

Un tunnel oscuro che porta il protagonista del romanzo, Antonio Delle Piane, alla conclusione che la ricerca della verità sull'omicidio della ventunenne Silvana – omicidio avvenuto quarant'anni prima – sia non solo una ricerca impossibile ma anche inutile. Che lo porta, in altri termini, alla coscienza che ciò che tragicamente risulta fondamentale sia ormai soltanto il dolore dei familiari e di chi ha voluto bene alla ragazza.

Ed è questa, alla fine, l'unica atroce constatazione che conta, che lacera ancora di più di ogni personale rielaborazione di un lutto: il permanere della sofferenza privata.

Patruno è un grande scrittore. Con un'estrema dovizia di particolari crea un romanzo fondato su una quête irraggiungibile. Sa calibrare i tempi, sondare nei più remoti angoli della psiche dei personaggi tanto da renderli reali, dei round characters, come li avrebbe definiti Forster. La ricostruzione storica è perfetta. L'autore non lascia nessuno spazio al pittoresco né tanto meno alla più stolida nostalgia. E tale distacco si rivela un ulteriore pregio per un romanzo suggestivo.