Scopriamo
le carte: non sono un fan dei romanzi storici. O meglio, non è che io non sia
un fan del genere in quanto tale. Rimango, in qualche modo, perplesso perché reputo
difficile, quasi impossibile, leggere un romanzo storico senza annoiarmi, senza
addirittura provare fastidio. E non intendo parlare soltanto delle produzioni
recenti.
Mi
spiego. Provate a prenderne in mano uno a caso – tra quelli di alto livello, s’intenda
– e a sfogliarlo anche con un’attenzione superficiale, ed ecco che venite
travolti dal pittoresco, dal romanzesco, da un impianto saggistico che trapela
perfino nei dialoghi, dall’affresco sociale che soffoca la linearità del
racconto, da personaggi privi di spessore che ripetono con monotonia la fissità
del loro essere, da descrizioni minute di acconciature, di abiti, di cibi e di ambienti
per niente funzionali all’intreccio, ma messi a bella posta per sottintendere lo
sforzo titanico delle ricerche compiute, per conferire una patina di verosimiglianza
storiografica ai caratteri e agli eventi, nella certezza della stima inevitabile
da parte del lettore insipiente.
Ma tra
tante ostriche indigeste, talvolta capita di coglierne una che cela una perla.
La casa
degli uccelli, di Laura Bosio e Bruno Nacci (Guanda, pag. 286),
è un bel libro, appassionante, dal ritmo rapido ma non convulso, degno di
divenire un bestseller nonostante sia scevro dagli stolidi cliché imposti
dagli editor poco coraggiosi.
Ambientato
tra la primavera e l’estate del 1794, in una Parigi sconvolta dal Terrore, La
casa degli uccelli riesce, per l’appunto, nel miracolo di non cadere né negli
stereotipi della letteratura di genere né nello sfoggio erudito, pur partendo
da un drammatico avvenimento reale.
Dentro a
un palazzo in rovina – chiamato comunemente casa degli uccelli perché
immerso in un giardino fornito di voliere ormai senza volatili (quelli che vi
vivevano, erano stati liberati da una folla inferocita) – gravita la più composita umanità:
Coloro
che hanno il permesso di entrare e di uscire, come il barbiere Bertier, un uomo
che sconcerta nel suo rivelarsi in bilico tra la solidarietà e il cinismo. Coloro
che, sebbene esterni, influiscono nella casa più dei presenti, come il giudice Fouquier-Tinville
– delineato finemente nel suo caos interiore che amalgama integrità, malinconia e ambivalenza – la cui ombra cala e
avvolge minacciosa in ogni dove e in ogni pensiero di tutta Parigi, casa
compresa. Coloro che si rivelano i reclusi solventi, i prigionieri che non
desiderano la libertà (come alcuni uccelli che nel prologo si dimostrano
riluttanti a lasciare le gabbie), i segregati all’apparenza soddisfatti della
propria detenzione: piccoli nobili, alti borghesi, ufficiali in pensione,
lestofanti di successo, tutti compromessi con l’Ancien Régime, tutti «ciechi
e sordi a tutto se non a quello che volevano vedere e sentire» (p.262). Coloro,
infine, che si ritrovano rinchiusi per fedeltà talora imposta, i servi,
costretti fino all’ultimo a condividere la sorte dolorosa dei loro padroni.
Una
varia umanità, insomma, brulica in questo romanzo corale. Un’umanità dolente,
agitata, che si abbandona al presente reiterando il passato; che riproduce gli
ormai anacronistici vanti superbi e i vezzi spocchiosi seppure ormai privi di ogni
riconoscimento sociale; che si inebria in un libertinismo ormai degradato nel
vuoto di una falsa inconsapevolezza; che itera con poca convinzione il
divertimento mondano più fatuo; che amplifica la vacuità del pettegolezzo per
difendersi dall’irrazionale che schiaccia le desolanti convenzioni secolari., per
forgiarsi uno scudo friabile dinnanzi all’incombere di un destino tragico,
Una
varia umanità, in altri termini, che si finge drogata, ma che in fondo è fin
troppo lucida della propria precarietà, dal più coinvolto al più innocente.
E noi
lettori non possiamo fare altro che seguire ma non immedesimarci (gran pregio!)
con le donne smarrite e gli uomini perduti che si muovono come traballanti marionette grottesche
(come le parrucche della falsa baronessa Manneville), marionette barcollanti prive
di coordinate, ma che mantengono l’espressione di sempre, sebbene il colore si
sia sbiadito, sebbene siano in procinto di essere arse.
Noi lettori
quasi ci trasformiamo in un pubblico teatrale che segue, con attenzione e
freddezza, i mal dissimulati tormenti di donne disperate e di uomini sbigottiti,
ma non redenti, anzi astiosi quanto mai, privi di qualsiasi vestigia di
solidarietà.
Forse
potremmo scorgere una donna e un ragazzo puri. Charlotte e Dominique, gli unici
in grado di separare il passato e il presente dal futuro, per quanto tale futuro
si riveli fragilmente eventuale.
Tuttavia, la ricerca della non complicità, del disinteresse nobilitante, della purezza, della bontà in un mondo di una desolata tristizia rimane a volte un’illusione appagante per non affrontare con schiettezza brutale la realtà.