Come
evitare, in una biografia, il prevedibile svolgersi cronologico di avvenimenti
e di considerazioni che puntano o a un’oggettività ambiziosa o a una
soggettività filologicamente, sì, impeccabile, ma che si appoggia, inevitabilmente,
su un’illusione deterministica, quasi fosse un platano senza radici tratteggiato
con perizia intorpidita in un acquerello da sala d’aspetto?
Renzo
Paris lo sa, ne è una riprova Miss Rosselli (Neri Pozza). Sa della
scarsa importanza delle descrizioni
fattuali e della necessità dello sgretolamento dei canoni, dell’esigenza dell’evocazione,
compromessa dall’intrusione dell’io, che, per forza di cose, mostra una sorta
di friabilità solida sovrapponendosi a ogni scontata intenzionalità narrativa.
E
così Amelia Rosselli non subisce la distorsione di una volontà narcisistica che,
nascondendosi, intende ridurre nel già letto il suo essere dolente, e la
sua lacerazione diuturna non viene segmentata ottusamente (o furbescamente) in una
serie di aneddoti, di lodi, di invettive, di pietismi, di riconoscimenti di vizi
e di virtù.
La
prospettiva rimane costantemente traballante, in quanto trema la mano che
sorregge la telecamera dei ricordi. Una telecamera che a volte sfuma, a volte
si perde nella nebbia di una memoria evanescente, a volte irrigidisce i
particolari come fossero dei monoliti, altre volte li distorce con l’onesta di
chi confessa di soffrire, appunto, di tremori gradevoli. E il centro si sposta
sulla voce narrante (un tempo si sarebbe detto sul locutario) che finge di derivare
dalle tensioni di un personaggio reale pur lanciando, forse per onestà,
continui messaggi non ermetici per rendere più fruibili le reali intenzioni
rappresentative.
Il personaggio creato, Miss Rosselli, si delinea, in tal modo, rientrando
in un intreccio ben costruito, incorniciato, per di più, da due fragili episodi
pseudo autobiografici, che quasi sottintendono la non erroneità di qualsiasi
sentore di rievocazione che vada oltre la razionalità, la non infondatezza di ogni definizione-visione
della statua paradossale di una divinità ambigua scolpita, in maniera
indelebile, su un marmo mentale (con le sue risate brutali, gli eccessi della
sua malattia), in costante rapporto-scontro con degli alter ego (le donne di
Paris, gli amorastri) che suggeriscono innumerevoli traverse di una strada dal
cemento privo di crepe.
L’ondeggiare
continuo tra il passato e il presente, che s’infrange nei marosi delle intermittences
du coeur, talora si fortifica in virtù di testimonianze più o meno credibili
di artisti partecipi che suggeriscono, incoraggiano, talora insultano, ma in
ogni modo arricchiscono il libero avanzare delle illuminazioni involontarie con
nuances di matrice giallistica senza inficiare la nostalgia di fondo, il
rammarico malinconico che invade perfino le parti più saggistiche di un libro
difficilmente dimenticabile.