La
vecchia nutrice indiana, Nagi, spiega, a inizio libro, a una Susannah ancora bambina,
che tutti gli esseri viventi e apparentemente non viventi, l'aria e gli astri
compresi, non sono altro che l'emanazione del Wakantanka, di quell'impalpabile grande mistero immanente che non distingue ma unisce, che penetra il tutto radicandosi
in modo panteistico nell'universo. Ogni singola esistenza non sarebbe altro che
una parte costitutiva di un'armonia incorporante che, potenzialmente, dovrebbe
collegare qualsiasi aspetto visibile e no in una pacifica convivenza naturale.
Il
dramma della cultura occidentale risalirebbe, secondo Raimondi, nel concetto di
individualità. O meglio, il singolo individuo, già dall’infanzia, scoprirebbe
in sé una sostanziale evanescenza che produce disorientamento ma, forse per
debolezza, preferisce accettare l’abbaglio solipsistico che lo conduce al
rifiuto netto verso la separazione del proprio personaggio fittizio – rinchiuso
in un ruolo artefatto di un'illusoria realtà da fiction – dall'unitaria essenza
universale.
Il
terrore del buio non illuminato dal lanternino personale – per ricollegarsi al
Pirandello del Fu Mattia Pascal – per Raimondi non comporterebbe lo
smarrimento dell'identità, ma la completa assenza di una reale empatia verso
gli altri, al rinchiudersi a riccio nelle proprie labili convinzioni e nelle
proprie contraddizioni moleste. Si tratterebbe, insomma, di una radicale
incapacità d’immedesimazione che si degrada in una rabbia verso il prossimo
motivata paradossalmente dall'incomprensione verso se stessi. Una rabbia che, a
sua volta, si tradurrebbe in un conformismo spietato, in una perenne trasmutazione
dell’io sociale in una sorta di polveriera pronta ad esplodere e a dilaniare
chi non è intrappolato nell'inganno esistenziale, chi si allontana dalle regole
delle convenzioni irrazionali su cui si fonderebbe l'inquietante paura di ogni
comunità che difende furiosamente la propria identità fasulla.
Il
disadattato appagato, l'eccentrico fino al paradosso, la ninfomane per scelta,
il mistico di una religione non riconosciuta, il rivoluzionario culturale in tempi del
pensiero unico, tutti coloro che sono derisi e offesi perché rappresentano la
libertà allo stato puro, si rivelerebbero anche l'oggetto dell'odio più
viscerale da parte di chi coglie, seppure inconsciamente, la loro forza primigenia,
il loro stretto legame, per così dire, con il Wakantanka, e pertanto li
teme in quanto sbigottito dalla prospettiva di un possibile sfaldamento delle effimere fondamenta sui cui si poggiano
le varie certezze non dissonanti della propria comunità.
Ormai,
nella società occidentale del Ventunesimo secolo, la crudeltà della maggioranza
impaurita si attua tramite varie forme di emarginazione più o meno atroci, ma
un tempo – come nella York di fine Seicento descritta dall’autore con la
perizia dello storico erudito – si manifestava mediante delle brutalità ben più
cruente che conducevano all'ebbrezza dell'efferato assassinio pubblico, vale a
dire a dei macabri riti simbolici finalizzati alla liberazione collettiva dalle scorie del dubbio, dal terrore di
scorgere delle prospettive di vita più libere, sì, ma anche meno consolatorie.
Su
questo piano di furente pessimismo si snoda il bel romanzo di Matteo Raimondi, Si
spengono le stelle (Mondadori, 2018), che mescola sapientemente vari generi
(thriller, romanzo storico, noir) per narrare una storia i cui personaggi, pur
nella loro costruzione plastica, si rivelano granitici, apparentemente
delineati in maniera manichea, in realtà in bilico tra una dannazione e una
redenzione non trascendente ma del tutto personale, immersi, come sono, in una
scrittura mitopoietica che li rende delle fragili ma potenti immagini
inquietanti scalfite, tuttavia, su una roccia friabile che li proietta al di là
della loro breve contingenza per renderli transitoriamente atemporali.
Tra i
poli apparentemente positivi e negativi dell'adolescente Susannah, incarnazione
ambigua di una libertà assoluta ma forse anche genetica, e del reverendo Randall,
antieroe spietato che si arrovella, nondimeno, nel calvario delle proprie
aporie, ruotano dei personaggi tormentati da aspirazioni e debolezze, in
perpetuo movimento ma, al contempo, paralizzati da un orizzonte allucinato
che vieta loro di immaginare qualsiasi forma di fuga reale finché, come
suggerisce il titolo che richiama Eliot, le stelle, anche loro parti integranti
del Wakantanka, si spengono, ma soltanto per un personaggio, il più
forte, il più consapevole, nonostante l'esperienza del dolore e della
conseguente solitudine, nonostante la scoperta definitiva dell'inconsistenza di
tutto ciò che si scambia per reale, di tutto ciò che si crede illusoriamente
distinto.