Quando
avevo tre anni, mi trasferii da Monteverde Vecchio al quartiere
Trieste.
Mia
nonna acquistò una farmacia e una casa a piazza Crati. Due delle tre
figlie, fra cui mia madre, la seguirono. E io mi ritrovai a crescere
da triestino.
Ho
trascorso un'infanzia misantropica, un'adolescenza problematica e un
post adolescenza saccente tra la borghesia perbenista del mio nuovo
quartiere che, sotto a una facciata di una esibita civiltà
consolidata, celava l'astio del risentimento sociale, la certezza
granitica di un'identità nei fatti friabile, il terrore
dell'irruzione violenta del diverso, il disprezzo nei confronti di
ogni prospettiva palingenetica. Prospettiva palingenetica, peraltro,
disdegnata perfino da me che, da bravo borghese, detestavo la mia
classe sociale ma non coglievo dei differenti orizzonti esistenziali.
Finita
l'università, giunse la decisione di allontanarmi da me stesso e di
spostarmi a Prati, di fuggire, in altri termini, dalla soffocante
identificazione con un esterno interiorizzato verso la rassicurante
diversità di un quartiere altrettanto borghese.
Per
tre anni mi sentii un estraneo, un intruso in un ambiente troppo
incompatibile, pur nelle sue analogie, per individuare una possibile
integrazione futura. E tornai indietro. Tornai al disarmonico
abbraccio della mia vera città detestata: il quartiere Trieste.
Chi
non è romano, anche solo di una generazione, non può capirmi, non
può accorgersi delle sfumature essenziali che, al di là dello
scorrere del tempo, rendono tra loro inconciliabili le diverse parti
di Roma (perfino quelle che parrebbero equivalenti), non può
cogliere che Roma non è una città, ma è un continente, non può
comprendere che i suoi quartieri non sono delle semplici zone
topografiche di un unicum urbano, ma sono delle nazioni.
Credere
che questo estremo ma omogeneo frazionamento-isolamento paradossale
sia scomparso, che sia confinato magari nella piccola città papalina
glorificata e oltraggiata da Belli, significa o giudicare Roma
attraverso gli stereotipi da Corriere della sera, o essere dei
forestieri che – come scrive Cirillo – abitano o abitavano
a Roma ma non ci vivono o non ci vivevano, tanto
più che si rivela un'illusione ritenere possibile vivere
davvero a Roma per un non romano, per uno straniero che mai riuscirà
a integrarsi nell'essenza polimorfa di un continente che simula di
essere una città, che dissimula la propria interiorità ostentando
delle esibizionistiche viscere ributtanti, delle profonde crepe su un
muro fatiscente.
Lo
straniero, per forza di cose, si ferma alla scorza e generalizza
mentre gli sfugge la complessità familiare di una molteplicità
organica sebbene slabbrata. Il romano no, specifica, distingue a
volte emettendo giudizi fasulli, a volte fingendo una disarmonia
risentita che spesso si esplica in dichiarazioni d'intenti evasivi
che lo stesso romano sa già che non si realizzeranno a meno che non
intervenga qualche imprevisto sgradevole.
Sfogliando
il bel libro antologico, curato da Silvana Cirillo, Roma punto a
capo (Ponte Sisto, 2017), si scorge che il veneto Parise
accostava i romani ai gatti che “stanno fermi e di solito ronfano o
fanno finta di dormire,” che “ogni tanto aprono un occhio, un
occhio assolutamente sveglio e si guardano intorno” per capire “se
è il caso di muoversi o no, se non è il caso, richiudono l'occhio e
riprendono a dormire o a fingere di dormire” (p.248). Si scopre
che l'abruzzese Flaiano scriveva che Roma “non giudica , assolve, e
allora chi lavora in questa città si sente un po' come un cane senza
collare”. Si apprende che l'emiliano Malerba affermava che “ogni
rapporto con Roma è fatalmente fondato sulla ambiguità: la si può
odiare furiosamente e continuare ad amarla in segreto, di lei si può
dire tutto il male e tutto il bene possibile” (p.119).
Belle
frasi, argute, perfino affascinanti, ma che rivelano un completo
fraintendimento, una totale mancanza della coscienza, vivissima
invece nel milanese Manganelli (come nota finemente il romano
Cortellessa) che nei risvolti di copertina dei suoi libri asseriva di
“risiedere” a Roma, non di “viverci” (p.135).
I
veri romani operano separazioni, avanzano semmai per giustapposizioni
non per addizioni, possiedono la consapevolezza che la propria città
sia appunto un continente che travalica l'unità, la scoprono come
l'ha scoperta Moravia, “in maniera non turistica” ma “attraverso
le frequentazioni della vita quotidiana” (p.153), ma a volte
travisano, portando se stessi, e il proprio inestirpabile marchio
territoriale, in un altrove stridente seppure appena appena.
Lo
stesso Moravia, d'altro canto, trascinò la propria interiorità da
via Sgambati a via dell'Oca e scorse attorno a sé un'intima
proiezione della propria profonda dissonanza territoriale. Ma – da
acuto osservatore di tutto ciò che era estraneo alla sua intima
coscienza – non equivocò, non travisò, non accomunò le pur lievi
inconciliabilità fattuali: I quartieri di Roma, perfino quelli
limitrofi, presentano delle peculiarità che non sfuggono, per
esempio, all'universo caleidoscopico dei Racconti romani.
E
Morante, nata a Testaccio ma formatasi sulla via Nomentana, fece uno
dei punti di forza del capolavoro La storia la descrizione
puntuale delle singolarità irriducibili dei quartiere popolari della
Roma dilaniata dalla guerra. Una descrizione antropologica, a volte
addirittura etnologica, che soltanto una romana sarebbe stata in
grado di attuare.
E
Albinati, mio connazionale, che sa bene quale siano le peculiarità
della nostra nazione comune, nella Scuola cattolica esclama:
“Quartiere Trieste, tomba del coraggio, prigione dalle pareti
trasparenti, culla e declino della civiltà! (…) Sono uscito di
casa (…) alla ricerca di chissà quale novità, quando la tua
essenza di quartiere è di non presentarne mai”.
Mio
padre nacque a via Po. Tornato all'ovile, non se ne volle staccare
più.
Mia
madre, nata a Trastevere e formatasi a via di Panico, si sente
tuttora un'esule.