Che
cosa furono gli anni Settanta? Furono degli anni caratterizzati
dall'idea che tutti avessero il diritto alla felicità oppure furono
degli anni grigi, pieni di vittime e di cattivi maestri che
pontificavano senza correre rischi?
Se la
felicità si rispecchiava negli ideali tossici del raduno del parco
Lambro, o nelle utopie terroristiche di alcuni fanatici che
giustificavano i loro omicidi in virtù del bene comune – come se
le vittime fossero dei meri mezzi inanimati per costruire un mondo
migliore e non degli individui veri e propri con le loro speranze e
le loro amarezze –, o se i maestri s'identificavano in Jean-Paul
Sartre che accusava – in preda alla follia senile – le autorità
italiane di uccisioni di ribelli innocenti e in Toni Negri che
incitava alla rivoluzione proletaria per poi fuggire e discettare
enfaticamente dalla Francia sulla situazione italiana, la risposta
sembrerebbe scontata. Ma sarebbe anche troppo semplicistica. Tanto
più che non terrebbe conto di ciò che fu rimosso completamente in
quel decennio: il senso della vita e quello della morte.
Per
non essere frainteso, Igor Patruno, in I campi
di maggio (Ponte Sisto,
2015), già nella seconda pagina del suo magnifico romanzo mette in
bocca a un personaggio, Riccardo, questa considerazione: «Osserva la
disposizione degli oggetti in questa stanza. È il prodotto della mia
visione del mondo. Quando non ci sarò più, perderà significato. La
morte dissolve la posizione fisica e sentimentale che assegniamo alle
cose e alle persone, perché quella posizione ha un senso solo per
noi. Nessun altro potrebbe interiorizzarla allo stesso modo. Ci
appartiene come individui, non è replicabile».
Già
da questa breve citazione si possono rintracciare – o almeno
immaginare senza poi essere smentiti – i punti cardini su cui ruota
il malinconico pessimismo esistenziale di Patruno: la precarietà di
ogni singola esistenza, la solitudine ontologica, l'incomunicabilità
dei singoli dolori, l'assurdità dell'indifferenza verso le sorti
degli estranei insita nel dna di ogni essere vivente, l'inammissibile
astio e ostilità che corrode i rapporti tra gli uomini e che
accresce il naturale male di vivere.
Patruno,
con uno stile fluido ma al contempo elegante, crea un tunnel
illuminato da luci scialbe che attraversa la narrazione e
l'arricchisce di un senso profondamente diverso da quello più
evidente.
Un
tunnel oscuro che conduce all'amara presa di coscienza dei limiti
della sensibilità umana («Viviamo inconsapevoli di quante persone
conosciute, magari solo superficialmente, se ne sono andate mentre
stavamo guardando la televisione, o fantasticando sulla sconosciuta
seduta sulla metro. Dentro di noi continuano a vivere come esistenze
sospese, come entità appese in una cella del cervello. Ma nella
realtà non ci sono più», pag.242).
Un
tunnel oscuro che, tuttavia, rende sempre più chiara la vanità
delle occupazioni-preoccupazioni individuali, la crudeltà illogica
di ogni violenta lotta politica, dal momento che la morte incombe su
tutti fin dal primo vagito («Mi piaceva guardare i treni passare.
(…) Di notte era uno spettacolo! (…) Intravedevo fisionomie
sbiadite di passeggeri addormentati, oppure intenti a chiacchierare,
a leggere, a rovistare nelle borse. (…) Ci guardavamo senza vederci
davvero, percependo nient'altro che ombre. Provavo nostalgia per la
fragilità di quelle vite in movimento e per la mia, in bilico su una
terrazza di fronte al mondo. Mi sembrava di cogliere l'assurdità
della vita. (…) Qualsiasi fosse la destinazione dei viaggiatori,
qualsiasi fosse il mio destino, la vita si mostrava come un flusso
sconclusionato, governato dal caso. Un treno in corsa dal quale non
si poteva scendere», pag.224).
Un
tunnel oscuro che porta il protagonista del romanzo, Antonio Delle
Piane, alla conclusione che la ricerca della verità sull'omicidio
della ventunenne Silvana – omicidio avvenuto quarant'anni prima –
sia non solo una ricerca impossibile ma anche inutile. Che lo porta,
in altri termini, alla coscienza che ciò che tragicamente risulta
fondamentale sia ormai soltanto il dolore dei familiari e di chi ha
voluto bene alla ragazza.
Ed è
questa, alla fine, l'unica atroce constatazione che conta, che lacera
ancora di più di ogni personale rielaborazione di un lutto: il
permanere della sofferenza privata.
Patruno
è un grande scrittore. Con un'estrema dovizia di particolari crea un
romanzo fondato su una quête
irraggiungibile. Sa calibrare i tempi, sondare nei più remoti angoli
della psiche dei personaggi tanto da renderli reali, dei round
characters,
come li avrebbe definiti Forster. La ricostruzione storica è
perfetta. L'autore non lascia nessuno spazio al pittoresco né tanto
meno alla più stolida nostalgia. E tale distacco si rivela un
ulteriore pregio per un romanzo suggestivo.